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Poi è finita. Ero di nuovo nella baracca, saldamente ancorato al 1896. Non c’è modo di descrivere meglio il fenomeno. È qualcosa che si sente più nella carne che nella mente: la sensazione viscerale di essere in un certo luogo. Ho aspettato che si consolidasse, poi ho ripreso a strisciare verso la porta. Questa volta, ho continuato ad avanzare anche quando l’incapacità del mio petto di espandersi mi ricacciava in gola il respiro, dandomi l’impressione di soffocare.

Quando ho raggiunto la porta, il mio petto era un cumulo di dolori strazianti. “Un attacco cardiaco”, ho pensato; le sensazioni dovevano essere quelle. Ho cercato di scacciare l’idea con un sorriso, ma probabilmente ho fatto una smorfia. “Ci mancherebbe altro”, ho pensato. Ho appoggiato la testa alla porta, aspettando che il dolore scemasse. Poco per volta è diminuito, come il pulsare alle tempie. Ho sollevato le spalle il più possibile da terra e mi sono lasciato cadere a corpo morto contro la porta.

La porta non si è mossa.

— Oh, “no”! — Un gemito. L’avevano chiusa a chiave? Ho fissato la porta, incredulo. Potevo restare prigioniero lì per giorni e giorni. Brividi convulsi mi hanno scosso. Buon Dio, potevo morire di sete. L’idea mi ha ispirato terrore. “Non può succedere”. Era un incubo; presto mi sarei svegliato. Ma anche nel pensarlo, sapevo benissimo di essere perfettamente sveglio.

Mi è occorso un po’ per ritrovare il controllo, per tacitare il terrore e poter pensare di nuovo. Lentamente, a denti stretti, ho ruotato su me stesso fino a premere sul legno le suole degli stivali. Mi sono riposato per diversi istanti, poi ho piegato le gambe il più possibile e ho tirato un calcio.

Ho emesso un gemito di sollievo quando, al terzo calcio, la porta si è spalancata con un forte scricchiolio. Sono rimasto sdraiato, boccheggiante, con un sorriso sulle labbra nonostante il dolore alla testa. C’era la luna; la sua luce pallida si è riversata su me. Ho studiato il mio corpo. La corda correva attorno al petto e alle braccia, attorno alle gambe da cosce a caviglie. Un lavoro da vero professionista.

Lentamente, come un verme gigantesco, sono strisciato fuori. Nel superare la soglia, ho visto che la porta era tenuta chiusa da una spranga di legno che i miei calci avevano fracassato. “Ci fosse stato un vero chiavistello…” Ho respinto l’idea. “Non perdere tempo con paure superflue” mi sono detto. Avevo già abbastanza paure concrete da affrontare. Mi sono guardato di nuovo. L’unico punto da cui poter cominciare era vicino alla mano destra. Contorcendomi, sono riuscito ad afferrare un nodo con la mano; era duro come un sasso. I miei deboli tentativi, gli unici possibili, non sono serviti a nulla. Mi sono chiesto perché mi facesse tanto male la destra, poi ho ricordato di avere colpito Jack.

Mi sono affannato sul nodo con maldestra impotenza. Mi sono fermato all’improvviso, invaso da un insieme di rabbiosa frustrazione e angoscia. — Aiuto! — ho urlato. La mia voce era roca, stravolta. — Aiuto! — Ho aspettato un grido di risposta. C’era solo il rombo lontano della risacca. Ho urlato di nuovo; ho urlato fino ad avere la gola indolenzita. Inutile. In giro non c’era nessuno. Dovevo liberarmi da solo. Mi sono voltato in cerca dell’hotel, ma da quel punto non era visibile. “Elise, non partire” ho pensato. “Aspettami, ti prego, aspettami.”

Per qualche momento ho creduto di scivolare di nuovo, di cadere verso la tenue membrana fra un tempo e l’altro. Sono rimasto immobile finché non è passato; questa volta il fenomeno è stato più breve. Perché accadeva? Per il colpo alla testa? Per la distanza che mi separava dall’hotel? O per gli effetti globali del trauma di tutto ciò che mi era successo?

Avevo paura che il pensarci troppo potesse scatenare ancora il fenomeno. Mi sono studiato attentamente, cercando di scoprire il modo per sciogliermi. Alla fine, ho cominciato a fare pressione sulla corda avvolta attorno alle gambe, nel tentativo di dividere le ginocchia e allentare la corda. Avvicinando fra loro gli stivali, ho ottenuto un punto d’appoggio migliore e sono riuscito a spingere le ginocchia contro la corda con più forza. Con un sorriso, ho scoperto che la tattica funzionava; ormai potevo staccare le gambe l’una dall’altra.

Tentando di ignorare le pulsazioni alla testa e il dolore al petto, ho continuato a muovermi finché non sono riuscito a sollevare la punta dello stivale destro e incunearla sotto la corda. Ho spinto col piede; la punta dello stivale è scivolata fuori. Testardamente, ho ritentato; questa volta ho sentito muoversi la corda attorno alle gambe.

Non so quanto tempo abbia impiegato, ma poco per volta ho fatto scendere la corda, fino a ridurla a un ammasso informe attorno alle caviglie. Ho tentato di estrarre lo stivale destro dal groviglio, ma era impossibile. Dibattendomi (i miei sforzi dovevano avere allentato i nodi sul petto, perché adesso respirare era meno doloroso), ho preso a sfregare i due stivali l’uno contro l’altro, finché quello destro non è rimasto sul terreno. Ho estratto dalle corde il piede destro e lo stivale sinistro. Avevo le gambe libere!

Il senso di vittoria è svanito quando mi sono reso conto che la seconda metà delle mie fatiche sarebbe stata molto più difficile. Attento a non perdermi d’animo, ho provato ad alzarmi. Avevo le gambe così intorpidite che mi è occorso più di un minuto. Le prime cinque volte sono caduto. Poi, quando il sangue ha ripreso a circolare ed è iniziata la sensazione di un milione di spilli che mi trafiggevano le gambe, mi sono tirato in piedi, barcollante.

Mi sono guardato attorno. E adesso? Correre all’hotel mezzo legato, con un solo stivale? L’idea era grottesca. Dovevo slegarmi del tutto. Il mio sguardo si è fermato alla base della baracca, dove c’erano cumuli di pietre tenuti assieme da una malta semisgretolata. In un punto, il muro era parecchio arretrato rispetto alle pietre, e lo spigolo della malta sembrava molto affilato. Ho corso per quanto potevo, mi sono buttato in ginocchio. Chinandomi in avanti, ho cominciato a sfregare la corda contro la malta.

Dopo diversi minuti, la corda ha iniziato a sfilacciarsi. Io ho inspirato e trattenuto il fiato, sperando di allentare ancora di più la corda. Non è servito. Ho ripreso a sfregare contro la malta, più in fretta.

Ho dovuto fermarmi, appoggiare la testa al muro. Dietro i miei occhi danzavano ombre. Stavo per svenire. “Non adesso”, ho pensato; non quando ero così vicino alla liberazione. Ansimavo. “Non partire, Elise”, ha implorato la mia mente. “Ferma il treno. Fra poco arriverò. Fra poco”.

Il pulsare alla testa è diminuito, e ho ripreso a sfregare. Dopo un minuto o poco più, la corda era talmente sfilacciata da permettermi di tenderla al massimo, farla scendere lungo i fianchi, e liberarmene. Mi sono riempito d’aria i polmoni. Viso e collo erano inzuppati di sudore. Ho tolto di tasca il fazzoletto, mi sono asciugato alla meglio. Poi, dopo un’altra, profonda inspirazione, mi sono avviato verso l’hotel.

Dapprima, non vedendo luci, ho pensato di avere preso la direzione sbagliata. Mi sono fermato e girato. Non c’erano luci nemmeno da quella parte. Un brivido. Come sarei riuscito a intuire la direzione giusta? Ho raccolto le idee. La baracca era rivolta verso l’oceano; quindi, la prima direzione che avevo preso doveva essere quella giusta. Voltandomi di nuovo, sono partito al trotto sulla spiaggia.

Ho visto che il terreno cominciava a salire. Prima, nella mia disperazione, non me n’ero accorto. Ho tentato di tenere un buon passo, ma le mie gambe erano colonne di piombo. Ho dovuto fermarmi a prendere fiato, a premere il palmo della sinistra sulla nuca per alleviare il dolore. Ho incontrato un bitorzolo incredibile; pareva che mi avessero inserito sotto le ossa del cranio un pallone da baseball segato in due. Il solo sfiorarlo mi ha strappato un gemito d’agonia.