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— È questo l’orologio più bello del mondo. Non ne vorrò mai un altro. Grazie.

— Grazie “a te” — ha mormorato lei.

Ho accostato l’orologio all’orecchio, deliziato dal ticchettio nitido, efficiente.

— Mettitelo — ha detto Elise.

Ho premuto il coperchio, che si è chiuso con uno scatto secco. Lei ha avuto un piccolo sussulto. — Cosa c’è?

— Niente, amore.

— No, dimmi.

— Ecco… — Sembrava imbarazzata. — Se tieni premuto l’albero di carica quando chiudi il coperchio… — Non è riuscita a terminare la frase.

— Mi spiace. — Era sconcertante scoprire quanto poco sapessi dei dettagli della vita quotidiana nel 1896.

Mentre cercavo di sistemare l’orologio nel panciotto, mi è venuto in mente quanto quel regalo fosse significativo: pur senza saperlo, Elise mi aveva donato l’oggetto che più di ogni altro simboleggia il tempo.

Non ho concluso niente. Ho rialzato la testa con un sorriso timido. — Temo di non essere all’altezza della situazione.

Lei ha slacciato uno dei bottoni del panciotto, ha infilato la catena nell’asola, l’ha sistemata in maniera che la sbarretta la tenesse ben salda. Mi ha sorriso, poi ha guardato la scatola. — Non hai letto il mio biglietto.

— Scusa. Non l’avevo visto. — Riaperta la scatola, ho scoperto un bigliettino bianco fissato con uno spillo all’interno del coperchio. Lo ho staccato con cautela e ho letto le parole scritte nella sua splendida grafia: “È amore, dolcissimo”.

Non sono riuscito a controllare il brivido. “Le sue ultime parole prima di morire”. Il pensiero mi ha trafitto. Ho tentato di scacciarlo.

Lei si è accorta della mia reazione. — Cosa c’è, amore?

— Niente. — Non ho mai mentito in modo così pietoso.

— No. C’è qualcosa. — Elise mi ha preso la mano e mi ha scrutato con aria grave. — Dimmi, Richard.

— È la frase. Mi ha commosso.

L’aria ha cominciato a caricarsi di elettricità. — Dove l’hai letta? — ho insistito. — O è tua?

Lei ha scosso la testa, e io mi sono reso conto che, come me, stava lottando con un cupo senso di premonizione. — È una frase di un inno. Hai mai sentito parlare di Mary Baker Eddy?

Cosa dovevo dire? Prima che riuscissi a decidermi, la mia voce ha risposto da sola: — No. Chi è?

— La fondatrice di un nuovo culto religioso, Scienza Cristiana. Ho partecipato a uno dei loro riti e ho sentito l’inno. Ha scritto lei le parole.

“Non ti dirò mai che le hai sentite male” ho pensato; e mai, mai ti ricorderò quali siano le altre parole”.

— Dopo la cerimonia, l’ho conosciuta — ha continuato Elise.

— Davvero? — ho ribattuto, sorpreso. E ho capito subito il mio errore: se non avevo mai sentito parlare della signora Eddy, come poteva sorprendermi il fatto che Elise l’avesse incontrata?

— È successo circa cinque anni fa. — Se Elise si era accorta della mia esitazione (e sono certo che l’avesse notata), ha preferito ignorarla. — Aveva settant’anni, eppure… Se possedessi il magnetismo di quella donna, Richard, potrei essere la più grande attrice del mondo. Ha la personalità più incredibile che io abbia mai visto in una donna, o in un uomo. Quando parlava, teneva in pugno i fedeli. È di corporatura fragile, e la sua voce è incolta, istintiva… ma la sua personalità, Richard, la sua “personalità”. Mi ha ammaliata. Tutto il resto è svanito. È rimasta solo quella figura esile sul pulpito. La sua voce ha soffocato ogni altro suono.

Ho capito che si era messa a parlare con tanta foga perché il mio comportamento l’aveva innervosita. Per mettere fine a quel fiume di parole, l’ho circondata con le braccia e attirata a me. — Amo il mio orologio — le ho detto. — E amo la persona che me lo ha regalato.

— Quella persona ti ama. — Il suo tono era quasi triste. Poi Elise è riuscita a imbastire un sorriso. — Richard?

— Cosa c’è?

— Mi giudicheresti un mostro se… — Si è interrotta.

— Se cosa? — Non sapevo cosa aspettarmi.

Lei era sempre più irrequieta.

— Se cosa, Elise? — ho ripetuto. Avevo il sorriso sulle labbra, ma i muscoli del mio stomaco si erano contratti.

Lei si è fatta forza. — Mi sento debole non soltanto per amore — ha sussurrato.

Io continuavo a non capire. Ho aspettato, nervoso.

— Mi sono fatta portare in camera un po’ di cibo e vino. Cracker, formaggio, frutta. — Ha girato lo sguardo verso l’angolo della stanza, e io ho visto un carrello con piatti coperti, una bottiglia di vino che sporgeva da un secchiello d’argento. Prima non l’avevo notato. Ho riso di sollievo. — Vuoi dire che hai fame?

— So che non è romantico. — Elise era imbarazzatissima. — Però dopo uno spettacolo mi viene sempre fame, e adesso che i nodi della mia tensione si sono sciolti, ho una fame doppia. Puoi perdonarmi?

L’ho stretta di nuovo a me, ridendo. — E ti scusi per “questo?” — Le ho baciato una guancia. — Dai, dobbiamo riempirti lo stomaco. Adesso che ci penso, ho un appetito del diavolo anch’io. Saranno stati tutti quegli sballottamenti…

Il suo sorriso radioso mi ha avviluppato. Elise mi ha abbracciato con tanta forza da farmi sussultare. — Oh, ti amo! E sono così felice che potrei svanire in una nuvoletta di fumo! — In rapida successione, mi ha baciato quattro volte attorno alle labbra, poi si è scostata. — Vuoi tenermi compagnia per una cena a un’ora molto, molto tarda, caro signor Collier?

Sono certo che il mio sorriso abbia espresso un’adorazione totale. — Controllerò la mia agenda degli appuntamenti — ho risposto.

Lei mi ha stretto di nuovo. Questa volta, un sibilo di dolore mi è sfuggito dalle labbra. — Oh. — Lei si è staccata subito. — Ti ho fatto male?

— Se sei così forte quando hai fame — ho ribattuto — cosa succede dopo che hai mangiato?

— Aspetta e vedrai. — Un sorriso vago ha aleggiato sulle sue labbra. Elise si è alzata, mi ha porto la mano. L’ho accompagnata al carrello, ho scostato una sedia per lei. — Grazie, amore — mi ha detto. Mi sono seduto di fronte a lei. Elise ha tolto i coperchi dai piatti, mettendo in mostra cracker, formaggi, frutta. — Vuoi aprire tu il vino? — mi ha chiesto.

Ho estratto la bottiglia dal secchiello e ho guardato l’etichetta. — Come? Non è un Bordeaux rosso a temperatura ambiente? — ho commentato, senza riflettere.

Lei si è irrigidita sulla sedia.

— Cosa c’è? — ho chiesto, cercando di fingere un tono naturale; ma l’espressione del suo viso era terribile.

— “Come fai a sapere che è il mio vino preferito?” Non l’ho mai detto a nessuno, a parte mia madre. Non lo sa nemmeno il signor Robinson.

Per lunghi attimi ho tentato di trovare una risposta, prima di capire che non c’erano risposte. Ho rabbrividito quando lei ha girato la testa, mormorando: — Perché ho paura di te?

— No, Elise. — Le ho teso la mano, ma lei si è rifiutata di prenderla. — Non avere paura, ti prego. Io ti amo. Non ti farei mai del male. — La mia voce, come la sua, era fioca, tremante. — Non avere “paura”, Elise.