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No, debbo smettere di proseguire su questo sentiero oscuro e pensare solo al nostro amore. Noi siamo fatti l’uno per l’altra e per nessun altro. So che è vero. Stanotte mi sembra di sapere esattamente cosa sia l’amore. (In questo momento, potrei interpretare Giulietta alla perfezione!) È la chiave di ogni cuore, e il tuo ha aperto il mio per sempre. Per me, questo mondo inizia e finisce con te.

Non scriverò altro. Tesoro mio, buonanotte. Forse, in questo stesso secondo sogni di me. Lo spero, perché ti amo col cuore e con l’anima. Oh, poter essere in quel sogno!

Sono troppo stordita e confusa per scrivere un’altra parola. Ma ne scriverò ancora due, prima di dormire. “Ti amo”.

Elise

I miei occhi sono corsi alla sua firma dietro un velo di lacrime. “P.S.: ti amo, Richard.” Ho guardato il secondo foglio, e il mio sorriso è aumentato. “P.P.S.: Non ero sicura di avertelo detto.”

Il mio sorriso è svanito. Elise aveva scritto qualcosa d’altro.

Non volevo parlartene, ma sento, in tutta onestà, di doverlo fare. Mentre appendevo la tua giacca, da una tasca interna è scivolato fuori un fascio di fogli piegati. Non intendevo leggerli (non lo farei mai senza il tuo permesso), ma non ho potuto fare a meno di notare una parte di ciò che vi era scritto. Ho la sensazione che la risposta alla tua presenza qui si trovi lì, e spero che mi dirai cosa hai scritto quando giungerà il momento. Il mio amore per te non cambierà. Niente potrebbe cambiarlo. E.

Ho scritto tutto ciò che è accaduto sino a ora. E scrivere mi ha portato a una decisione: non le mostrerò mai quello che ho scritto. Adesso mi vesto, esco, trovo dei fiammiferi e un angolo di spiaggia, e brucio queste pagine. Lascerò che il vento disperda la cenere nella notte. Lei capirà quando le dirò che l’ho fatto per eliminare l’unica barriera rimasta fra noi, in modo che nulla, in questo o in un altro mondo, possa separare Elise e Richard.

Ho portato la sua lettera e i miei fogli all’armadio. Ho ripiegato i fogli e li ho sistemati nella tasca interna della giacca assieme alla sua lettera.

Per diversi minuti, sono rimasto lacerato fra l’impulso di mettere immediatamente in atto il mio piano e il desiderio pressante di sdraiarmi di nuovo a letto, accanto al suo corpo caldo. Ho raggiunto il letto e mi sono fermato a guardare Elise. Era così dolce nel sonno, come una bambina: il palmo di una mano sul cuscino, le guance del colore dei petali di una rosa, le labbra appena socchiuse. L’intenso desiderio di chinarmi a baciare quelle labbra mi ha aiutato a decidere. La adoravo. Non avrei trovato pace finché non avessi reciso l’ultimo legame col mio passato. Sono tornato all’armadio e ho cominciato a vestirmi.

Gradualmente, nello specchio ha preso forma un uomo del 1896, coperto di escoriazioni e con l’occhio sinistro iniettato di sangue. Ho indossato biancheria intima e calze, camicia e pantaloni, poi gli stivali. Ho messo la cravatta, la giacca, e mi sono pettinato. Lo specchio rifletteva l’immagine di R.C. Collier, gentiluomo di fine Ottocento. Ho annuito e gli ho sorriso, soddisfatto. “Basta coi dubbi”, mi sono detto. “Tu appartieni a questo tempo”.

Dallo scrittoio ho raccolto l’orologio e l’ho sistemato nel panciotto; adesso ero completo. Con un sorriso, ho attraversato la stanza facendo il meno rumore possibile, gli occhi puntati su Elise. — Torno fra un attimo, amore mio — le ho sussurrato.

Ho girato la chiave nella serratura con cautela, per non svegliarla. Ho aperto la porta e sono uscito. L’ho accostata in perfetto silenzio e mi sono incamminato, senza chiudere a chiave: sarei rientrato nel giro di pochi istanti. Mentre attraversavo il salotto comune e raggiungevo il cortile aperto, canticchiavo.

Avevo appena preso a sinistra quando, con la coda dell’occhio, ho notato un movimento sulla destra. Ho guardato in quella direzione. Col cuore improvvisamente impazzito, mi sono girato, e di fronte a me c’era Robinson.

La sua espressione era terribile. Ho capito immediatamente che era tornato per uccidermi. Mi sono lanciato in avanti e gli ho afferrato il polso destro con tutta la forza che avevo. La sua faccia era una maschera di pietra, immobile, a parte il pulsare di una vena sotto l’occhio destro. Non parlava. Le sue labbra erano ritratte sui denti, il suo respiro era un ansito sibilante. Stava lottando per infilare la mano nella tasca destra, dove, lo sapevo con certezza matematica, c’era una pistola.

— Lei non può uccidermi, signor Robinson — ho detto con estrema lentezza. — Io vengo dal futuro e so tutto di lei. Lei non può essere impiccato per omicidio perché è destinato a morire nel Nord Atlantico tra vent’anni.

Il suo momentaneo stupore mi ha dato il vantaggio che mi occorreva. L’ho scaraventato all’indietro con entrambe le mani, e lui è caduto. Io mi sono voltato, ho comincialo a correre. Attraversato il salotto comune, ho raggiunto la porta della camera di Elise. Sono entrato e ho chiuso a chiave. Mi girava la testa. Ho dovuto appoggiarmi alla parete. Il cuore batteva ancora con tanta violenza da togliermi il respiro. Mi è parso di sentire il rumore dei suoi passi nel salotto comune, e sono indietreggiato, spaventato. Cosa intendeva fare Robinson? Bussare alla porta fino a svegliare Elise? Far saltare la serratura con un colpo di pistola e poi uccidermi? Ho barcollato in direzione del letto. “Non svegliarla”, mi sono detto. Ho cambiato rotta, dirigendomi verso l’armadio. I miei polmoni non riuscivano a inspirare aria a sufficienza. Dovevo rimettermi a letto con lei, stringerla a me.

Mentre mi toglievo la giacca, ho fissato la porta. Robinson non aveva fatto irruzione, e non stava nemmeno bussando all’impazzata. Perché? Perché sapeva come avrebbe reagito Elise? All’improvviso, le mie dita hanno incontrato un oggetto duro, circolare, sotto la tasca destra della giacca. “Un buco”, ho pensato. Una delle monete che il commesso dell’emporio mi aveva dato di resto era caduta nella fodera.

Sapevo che non era importante. Quest’idea mi perseguiterà sino alla fine dei miei giorni. Eppure, qualcosa mi ha spinto a infilare la mano in tasca, tastare con dita tremanti fino a trovare il buco, e poi, con l’aiuto dell’altra mano, far risalire la moneta dalla fodera. Le mie dita l’hanno toccata. L’ho tirata fuori e l’ho guardata.

Era un penny del 1971.

In quell’istante, una cosa oscura e orribile ha cominciato a crescere dentro me. Ho intuito di cosa si trattasse e ho tentato di gettare via il penny, ma sembrava dotato di un mostruoso magnetismo. Non riuscivo a staccarlo dalla mia pelle. L’ho fissato con crescente terrore. Come in un incubo, la moneta aderiva alle mie dita, e io non potevo liberarmene. Ho preso a tremare e boccheggiare. Una nube di sussultante gelo mi ha avvolto. Il mio cuore batteva lento. Ho cercato inutilmente di urlare; ogni suono era chiuso, paralizzato nella mia gola. Ho gridato, ma solo con la mente.

Non potevo fare nulla. Era quello il lato più atroce. Ero impotente. E sapevo, nel mio muto terrore, che qualcosa stava lacerando i tessuti connettivi, per strapparmi al 1896 e a lei. Ho tentato, con tutta la mia forza di volontà, di staccare gli occhi dai numeri incisi sul penny, ma mi era impossibile. Pulsavano, si infiltravano nei miei occhi e nel cervello come onde di energia negativa. “1971. 1971”. La mia presa ha cominciato a diminuire. “No”, ho implorato, paralizzato da una folle angoscia. “No, ti prego, no!” Ma chi poteva udirmi? Ero arrivato lì grazie a un poderoso sforzo di concentrazione mentale, e adesso, in una rapida successione di momenti infernali, mi obbligavo a tornare indietro fissando quel numero. “1971. 1971”. Disperatamente, ho tentato di costringermi a ricordare che mi trovavo nel 1896, che era il 21 novembre del 1896. Ma non potevo trattenere quella consapevolezza, in alcun modo. Non con quel penny incollato alle mie dita, col suo potere che insinuava l’altro anno nella mia coscienza. “1971. 1971. 1971. Perché non riesco a liberarmene? Non voglio tornare indietro! Non voglio!”