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Adesso, una tenebra vibrante mi circondava come una nube di vapore. Paralizzato, fatto di pietra, a stento sono riuscito a girare la testa verso il letto. “No! Dio, no!” Quasi non la vedevo più! Elise era una figura vista attraverso un banco di nebbia. Un gemito di angoscia mi è risuonato in petto. Ho tentato di spostarmi, di andare da lei, ma non potevo muovermi; un peso oscuro e mostruoso mi teneva ancorato in quel punto. “No!” Ho cercato di scrollarlo via. Non avrei permesso che mi strappassero da Elise. Con ogni briciola di forza che ancora mi restava, ho riprovato a liberarmi di quella moneta maligna. Non era il 1971. Era il 1896. Il 1896!

Inutile. Il penny è rimasto sulla mia pelle come una mostruosa escrescenza. Sconfitto, ho riportato il mio sguardo affranto su lei. Un urlo di terrore mi ha straziato l’anima. Elise era quasi svanita nell’oscurità che turbinava attorno a me, che mi stava risucchiando nel suo vuoto. Non capirò mai perché, ma in quel momento mi è tornato il ricordo di ciò che mi aveva detto una donna spiegandomi i sintomi dell’arrivo di un collasso nervoso. Me lo aveva descritto come “qualcosa che ti cresce dentro; qualcosa che ignora la ragione e la forza di volontà; qualcosa di buio e irrequieto che si espande in continuazione, ed è come avere dentro un ragno che tesse una terribile, gelida ragnatela, destinata ad avviluppare cervello e corpo.” Era esattamente quello che provavo io: immobile, impotente, aspettavo; lo sentivo crescere dentro me in maniera inesorabile, e sapevo di non poterlo fermare.

Ho aperto gli occhi. Ero coricato sul pavimento. Da fuori mi giungeva il rombo lontano della risacca.

Mi sono lentamente rizzato a sedere e ho scrutato la stanza buia che, un tempo, era stata di Elise. Il letto era vuoto. Febbricitante, mi sono alzato e ho guardato la mia mano destra. Il penny era ancora lì. Con un urlo di repulsione, l’ho scaraventato via, l’ho sentito rimbalzare a terra. “Adesso mi liberi della tua presenza!” ho pensato, con stupefatto odio. “Adesso che mi hai costretto a tornare”.

Non so per quanto tempo sono rimasto lì, senza più vita, senza più forza di volontà. Potrebbero essere state ore, anche se sospetto che in realtà non siano trascorsi più di dieci o quindici minuti. Alla fine, ho attraversato la stanza a passi di piombo, ho aperto la porta, e sono uscito in corridoio. Non c’era nessuno. Mi sono guardato e ho visto il vestito. Ho rabbrividito. “Il costume, vorrai dire”, mi ha corretto la mente, amara.

Mentre mi incamminavo, riuscivo solo a pensare che avevo perso Elise per uno stupidissimo penny che si era infilato nella fodera della giacca. Ero riuscito a vincere tutti gli altri shock; ma alla fine, il penny mi aveva costretto a tornare. Come una macchina rallentata, difettosa, il mio cervello continuava a rivedere quell’unico particolare, a tentare di analizzarne l’orrore. Il penny non era mio; ovviamente, doveva essere dell’uomo che aveva noleggiato il costume prima di me. E per colpa “di una cosa del genere”, di una cosa del genere!, avevo perso Elise. Ero con lei solo pochi minuti prima; avevo ancora addosso la sensazione e il profumo del suo corpo. Se fossi rimasto a letto con lei, non sarebbe successo. Cercando di rafforzare la mia presa sul 1896, l’avevo persa completamente. E tutto per colpa di un penny scivolato nella fodera di una giacca. La mia mente barcollava all’infinito su quel fatto, ma senza trarne alcun risultato. Non ero in grado di capire.

Non capirò mai.

Avevo raggiunto la mia stanza, la mia stanza del 1971, prima di ricordare che non avevo una chiave per aprire la porta. Ho fissato quella porta a lungo. L’esperienza di venire risucchiato nel 1971 mi aveva privato di ogni facoltà mentale. Ho impiegato parecchio tempo a racimolare scarni brandelli di informazioni, tanto da arrivare a decidere che dovevo ridiscendere. Sapevo di non potermi presentare al bureau. Non ero in grado di parlare, di spiegare; non funzionavo più come individuo pensante. Ero stordito e vuoto. Ho sceso le scale e mi sono diretto alla porta sul retro. Pochi minuti prima, ero con lei. Eppure adesso erano passati settantacinque anni. Elise era morta.

Ed ero morto anch’io Quello lo capivo. Sono uscito dall’hotel. Pensavo di buttarmi nell’oceano, affogarmi, distruggere il corpo come era stata distrutta la mente. Ma non ne avevo la forza, la volontà. Mi sono aggirato nel parcheggio senza una meta. La pioggia era così rada che quasi non sentivo le gocce sul viso; sembrava più nebbia che pioggia.

Mi sono fermato davanti a un’automobile e l’ho guardata a lungo prima di rendermi conto che era la mia. Ho frugato nelle tasche con dita intorpidite. Alla fine ho capito che non potevo avere le chiavi in tasca. Mi sono inginocchiato, ho teso un braccio sotto l’auto, e dopo un po’ la mia mano è entrata in contatto con la scatoletta di metallo magnetizzato. L’ho staccata dal pianale, mi sono aggrappato alla maniglia per tirarmi su. I calzoni erano inzuppati di pioggia e fango all’altezza d’elle ginocchia, ma non me ne importava niente. Con movimenti lenti, ho sollevato il coperchio della scatola e ho preso le chiavi.

L’auto era fredda; i finestrini, coperti di vapore. Ho tastato alla cieca con la chiave finché non sono riuscito a infilarla nella fessura dell’accensione. Ho fatto per girarla, poi mi sono abbandonato sul sedile, esausto. Non avevo la forza per guidare fino al ponte e buttarmi giù. Non avevo la forza per uscire dal parcheggio, nemmeno la forza di accendere il motore. Ho lasciato cadere la testa in avanti, ho chiuso gli occhi. “L’ho fatto”, ho pensato. La frase si è ripetuta all’infinito nella mia mente, consapevolezza dolorosa, interminabile. “L’ho fatto”. Ciò che avevo letto in quei libri era vero. “L’ho fatto”. Non era più necessario riscrivere nessuno di quei volumi. “L’ho fatto”. Ciò che avevo temuto di fare sin dall’inizio. Ciò che avevo giurato di non fare mai. “L’ho fatto”. Le avevo aperto il cuore solo per spezzarlo.

“L’ho fatto!”

Ho riaperto gli occhi e ho visto la catena dell’orologio sul panciotto. Ho estratto l’orologio dal taschino e l’ho guardato. Dopo un po’, ho fatto scattare il coperchio e ho scrutato il quadrante. La luce di un vicino lampione che filtrava dal finestrino mi ha permesso di vedere. Erano le quattro appena passate. Nel silenzio dell’automobile, udivo il ticchettio sereno, metodico, dell’orologio. Mentre lo fissavo, un’idea grottesca mi ha attraversato la mente. Era stato un penny lanciato in aria a portarmi a San Diego. Un penny mi aveva portato da lei. Un penny mi aveva strappato al mio amore, il mio unico amore, il mio amore perso.

La mia Elise.

Poscritto di Robert Collier

Richard è tornato a casa lunedì mattina, il 22 novembre 1971. Era pallido e taciturno. Si. è rifiutato di dirci dove fosse stato o cosa gli fosse successo. Appena arrivato, si è coricato sul suo letto e non si è più alzato.

Il suo declino è stato rapido. Un mese dopo era ricoverato in ospedale. Lì, come a casa, ha trascorso le giornate in silenzio, fissando il soffitto con l’orologio d’oro stretto nella mano. Una volta, un’infermiera ha cercato di toglierglielo, e Richard ha pronunciato le uniche parole che qualcuno gli abbia sentito dire nei suoi ultimi mesi di vita: “Non lo tocchi”.

Non è sorprendente che Richard si sia creato l’illusione di viaggiare all’indietro nel tempo e conoscere Elise McKenna.

Sapeva di avere poco da vivere. Era una verità indiscutibile, e deve essere stata uno shock tremendo per lui. Aveva solo trentasei anni; deve essersi sentito tradito. Non aveva mai avuto un rapporto sentimentale soddisfacente, e adesso la sua esistenza stava per concludersi prematuramente. Doveva trovare una via di fuga da quel tradimento: e quale rifugio poteva essere più naturale, per lui, del passato? Troppo consapevole per fuggire nel proprio passato, ne ha scelto un altro.