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I suoi problemi personali erano microscopici confronto a quelli dell’umanità in generale, per cui si disse che doveva assumere un atteggiamento più elastico. Sapeva perfettamente quale tipo di storia voleva Anne, quindi, per non dar peso all’argomento, doveva scrivere ciò che lei non avrebbe voluto. Doveva essere un resoconto freddo, razionale, limitato ai fatti, e soprattutto noioso. Spense la radio e cominciò a controllare i numeri delle case. Quella a cui era diretto si trovava nella zona Sud-Est nei primi venti numeri, e quando l’ebbe raggiunta si rivelò essere una villetta divisa dalla strada da un giardino ben tenuto. I fiori bianchi, rossi e blu parevano piantati in modo da formare un disegno patriottico. Jerome notò che esternamente la casa non recava traccia d’incendio.

Si fermò, scese, e stava chiudendo lo sportello quando gli venne fatto di pensare che finora si era troppo preoccupato dei suoi argomenti logici per tener conto della tragedia umana causata da quell’incendio. Una donna aveva perduto il padre in circostanze tragiche da pochi giorni, e chissà come avrebbe reagito trovandosi davanti un giornalista. Pensandoci, Jerome si pentì di non aver telefonato per fissare un appuntamento. Chissà, forse la donna non gliel’avrebbe concesso e lui si sarebbe risparmiato quel noioso incarico. Inoltre forse era andata a stare da qualche parente. Sperando in questo salì i gradini di cemento. Arrivò al portone ansimando un poco — la scala era lunga essendo la villetta sopraelevata rispetto al piano stradale — e il ginocchio gli doleva come se le articolazioni fossero state fregate con la carta vetrata. Solo cinquant’anni — pensò mentre suonava il campanello — e questa maledetta macchina sta andando rapidamente in malora.

Al trillo del campanello rispose una donna ancora giovane dall’aria stanca, e lui capì che era la figlia del morto. Indossava un abito scuro, e aveva una simpatica faccia tonda e intelligente che piacque a prima vista a Jerome.

«Buongiorno» disse. «Sono Rayner Jerome, cronista dell’Examiner. Mi dispiace di disturbarvi in un momento come questo, ma il mio direttore mi ha detto di venire, e…»

«Non fa niente» disse lei con voce rassegnata. «Entrate, prego.»

«Grazie.»

Jerome la seguì, notando che sebbene fosse pettinata e indossasse un vestito pulito e in ordine, non aveva quell’aspetto accurato che lui istintivamente associava a quel tipo di donna. Capì che stava passando un periodo difficile, evitando di cercare aiuto agli estranei, e la sua simpatia per lei aumentò. C’era passato anche lui. Lei lo portò in una cucina scintillante di oggetti di rame, prese una scatola di bustine di tè e lo guardò con aria interrogativa. Jerome accettò volentieri.

«Non ero sicura che venisse qualcuno» disse lei mentre preparava le tazze. «Non conosco personalmente la vostra direttrice, ma un’amica delle Pythian Sisters mi aveva detto che le avrebbe parlato di me. Sono contenta che siate potuto venire.»

«Anch’io» rispose Jerome un po’ confuso perché si accorgeva che si era aggiunta una nuova complicazione alla situazione. Quella donna a cui era da poco morto il padre poteva avere opinioni che probabilmente coincidevano con quelle di Anne Kruger, e che comunque gli creavano parecchie complicazioni nel lavoro. Preso dall’impazienza, non vedeva l’ora di sbrigare quella triste faccenda.

«La gente a volte è così stupida, così meschina» continuò Maeve Starzynski. «Dicono che mio padre era così pieno d’alcol che ha preso fuoco come una torcia… come se l’alcol, una volta ingerito, non si trasformasse in altre sostanze… come se si immagazzinasse dentro come una bombola di gas… Stupido, non vi pare?»

«Assurdo» ammise Jerome. Bevve il tè e depose la tazza. «Posso vedere la stanza dove si è sviluppato l’incendio?»

«Da questa parte.» Maeve gli fece strada attraverso l’ingresso e voltò a sinistra in un salotto che Jerome aveva già attraversato entrando. Era una stanza d’angolo, con finestre su due pareti contigue, arredata più tenendo presente la comodità che lo stile, con divanetti incassati sotto i davanzali e scaffali fabbricati in casa per i libri. Tappeti arancione coprivano in parte il pavimento color caffelatte di vinile dando all’ambiente una nota di vivacità e di allegria. Pareti e soffitto erano bianchi, l’aria era pulita. Jerome, che conosceva per esperienza di lavoro il sentore acre che resta per settimane nei luoghi dove c’è stato un incendio, si guardò intorno perplesso. L’unica nota discordante era un’asse quadrata sul pavimento, posta vicino a un tavolino alto che doveva esser servito per il televisore.

«Ci sono stati pochissimi danni» osservò. «Di solito quando una casa prende fuoco…»

«Questa casa non ha preso fuoco» precisò Maeve interrompendolo. È stato mio padre che ha preso fuoco ed è morto bruciato, consumandosi completamente. «Ebbe un attimo di esitazione.» Di lui non è rimasto quasi niente.

«So che deve essere penoso per voi» disse Jerome indicando l’asse «ma è lì che avete trovato il corpo?»

Maeve scosse la testa decisa: «Non c’era nessun corpo. È questo che la gente stenta a capire. Mio padre era ridotto a un mucchietto di ceneri. Cenere di sigaro, si potrebbe dire. Guardi.» Si chinò a spostare l’asse mettendo a nudo un foro circolare di un metro circa di diametro, attraversato da travi con la superficie annerita, e sul fondo si vedevano i graticci del soffitto della cantina.

Jerome studiò la cavità prodotta da quell’incendio così inesplicabilmente circoscritto, stentando a credere a quello che aveva sentito. La quantità di calore necessaria e ridurre in cenere un corpo umano, come aveva detto Maeve Starzynski, avrebbe dovuto bruciare un’area molto più ampia, dando origine a un incendio di vaste proporzioni. Dopo qualche attimo, alzò la testa a scrutare il volto di Maeve. Lei contraccambiò lo sguardo, con occhi limpidi, intelligenti e turbati.

Io la rispetto, si disse Jerome. Ma dove vuol andare a parare?

«Vi spiace spiegarmi per filo e per segno quello che è successo?» chiese avviandosi per esaminare il resto della stanza.

«Certamente» rispose lei senza esitare. «Premettiamo che mio padre stava fumando la pipa l’ultima volta che l’ho visto, e che gli era caduta un po’ di cenere ardente sul cardigan.»

Jerome si fermò. Ci siamo, pensò. Ecco la spiegazione.

«No» disse Maeve prevenendo la sua domanda. «Ne parlo solo perché la polizia ha insistito molto su questo punto. Ma le braci non erano tante da appiccare il fuoco ai suoi indumenti. E anche se così fosse, non basterebbero a spiegare tutto, vi pare?»

«Capisco quel che volete dire.»

«In secondo luogo, le ultime parole che ho rivolto a mio padre sono state: “Vorrei che tu morissi bruciato”.»

Jerome tornò a fermarsi, turbato, intuendo che la conversazione l’avrebbe costretto ad approfondire il suo resoconto addentrandosi in regioni più oscure e infide. Evitando di far commenti, carezzò la superficie curva di una boccia fermacarte di vetro posata su uno scaffale.

«La ragione principale per cui ne parlo» proseguì Maeve, è che quel che gli ho augurato è successo, e questo è proprio il genere di cose per cui certe donne sarebbero tanto stupide da ammalarsi di nervi, cosa che io mi guardo bene dal fare. Mio padre non è morto bruciato perché io gliel’avevo augurato. C’era stato fra noi un breve battibecco a proposito del suo vizio. Io sono impulsiva e a volte dico cose che preferirei non dire, ma tutt’e due lo sapevamo e nessuno vi ha dato peso.