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Lloyd avvertì una pressione giù in basso. Per un orribile momento pensò che stava per avere un’erezione, ma non era così. Invece, tutto a un tratto, vi fu un senso di pienezza nella vescica; doveva urinare. Ritrasse la mano e vide le sopracciglia della vecchia sollevarsi in un’espressione interrogativa. Lloyd riuscì a sentire le sue spalle che si alzavano e si abbassavano, una piccola scrollata. La donna gli sorrise… un sorriso caldo, un sorriso di comprensione, come se quella fosse la cosa più naturale al mondo, come se lui dovesse scusarsi spesso per quel fatto. I denti di lei erano appena gialli — il semplice giallo dell’età — ma per il resto erano perfetti.

Alla fine il suo corpo fece ciò che lui aveva desiderato fin dall’inizio: rotolò via dalla donna. Lloyd provò dolore al ginocchio, mentre si girava, un colpo secco. Faceva male, ma lo ignorò ostentatamente. Calò le gambe fuori dal letto, e i piedi sfiorarono appena il pavimento di legno duro e freddo. Era metà mattina o metà pomeriggio, l’ombra proiettata da un albero si disegnava netta sul successivo. Un uccello si era fermato a riposare sopra un ramo; sobbalzò all’improvviso movimento nella stanza da letto e volò via. Un pettirosso: il grosso tordo nordamericano, non il piccolo pettirosso del vecchio mondo. Non c’erano dubbi: Stati Uniti o Canada. In effetti ricordava il New England… Lloyd amava i colori dell’autunno nel New England.

Si trovò a muoversi lentamente, quasi strascicando i piedi, sopra le assi di legno. Proprio in quell’istante si rese conto che quella stanza non si trovava in un appartamento, ma piuttosto in un cottage; l’arredamento era il consueto guazzabuglio da seconda casa. Quel comodino basso, in pannello truciolare rivestito in alto da un’impiallacciatura sottile come carta da parati che riproduceva false venature: almeno quello lo riconobbe. Un mobile che aveva acquistato quando era studente, e che alla fine aveva sistemato nella stanza degli ospiti della sua casa in Illinois. Ma che ci faceva lì, in quel posto così poco familiare?

Continuò ad avanzare. Il ginocchio destro gli doleva a ogni passo; si domandò che cosa ci fosse che non andava. Sulla parete c’era uno specchio appeso; la cornice era di pino nodoso, ricoperto di vernice chiara. Faceva a pugni con il legno più scuro del comodino, naturalmente, ma…

Gesù.

Gesù Cristo.

Di loro iniziativa, i suoi occhi guardarono nello specchio mentre gli passava davanti, e lui vide se stesso…

Per mezzo secondo pensò di essere suo padre.

E invece era lui. Quei pochi capelli che gli erano rimasti sulla testa erano completamente grigi; i peli sul petto erano bianchi. La sua pelle era floscia e venata, il suo portamento ricurvo.

Potevano essere le radiazioni? Forse l’esperimento lo aveva esposto? Forse…

No. No, non era così. Lo sapeva nelle ossa, nelle ossa artritiche. Non era così.

Lui era vecchio.

Era come se fosse invecchiato di vent’anni o più, come se…

Due decenni di vita spariti, rimossi dalla sua memoria.

Ebbe voglia di gridare, di sbraitare, di protestare contro l’ingiustizia, di lamentare la perdita, di esigere una spiegazione dall’universo…

Ma non poteva fare nulla di tutto ciò; non aveva alcun controllo. Il suo corpo continuò nel lento, penoso strascicamento verso il bagno.

Mentre svoltava per entrare guardò indietro la vecchia sul letto, adesso sdraiata sul fianco, con la testa appoggiata su un braccio, e un sorriso malizioso, seducente. Vedeva ancora bene… poteva vedere il luccichio dell’oro sul dito medio della mano sinistra. Già era abbastanza brutto che dormisse con una vecchia, ma che dormisse con una donna vecchia e sposata…

La semplice porta di legno era socchiusa, ma lui allungò la mano per aprirla del tutto, e con la coda dell’occhio scorse la fede al dito della mano sinistra.

Poi la cosa lo colpì. Quella megera, quell’estranea, quella donna che non aveva mai visto prima, quella donna che non assomigliava minimamente alla sua adorata Michiko, era sua moglie.

Lloyd sarebbe voluto tornare a guardarla, tentare di immaginare come doveva essere stata qualche decennio prima, di ricostruire la bellezza che forse una volta aveva avuto, ma…

Ma continuò, entrò in bagno, girò il volto verso la tazza, si chinò per sollevare il coperchio, e…

…e improvvisamente, incredibilmente, misericordiosamente, straordinariamente, Lloyd Simcoe si ritrovò al CERN, di nuovo nella sala di controllo dell’LHC. Per qualche ragione era accasciato sulla sua poltrona di vinile imbottito. Si raddrizzò e usò le mani per sistemarsi la camicia.

Che allucinazione incredibile era stata! Naturalmente c’era un prezzo da pagare: in teoria lì erano perfettamente schermati, con un centinaio di metri di terra fra loro e l’anello del collisore: ma aveva sentito dire che le scariche ad alta energia potevano provocare delle allucinazioni, e di certo era quello che gli era successo.

Lloyd si concesse un attimo per ritrovare l’orientamento. Non c’era stata nessuna transizione fra il lì e il qui: nessuna vampata di luce, nessuna sensazione di vertigini, nessun rombo nelle orecchie. Un momento prima lui era al CERN poi, il momento successivo, si era trovato da qualche altra parte per — per quanto tempo? — per due minuti, forse. E adesso, senza interruzione, era di nuovo nella sala di controllo.

Naturalmente non l’aveva mai lasciata. Naturalmente era stata tutta un’illusione.

Si guardò intorno, cercando di leggere nei volti degli altri. Michiko appariva sconvolta. Aveva osservato Lloyd mentre era in preda alla sua allucinazione? Che cosa aveva fatto? Si era dimenato come un epilettico? Aveva proteso la mano in aria come se stringesse un seno invisibile? 0 era semplicemente rimasto accasciato nella poltrona, privo di sensi? In tal caso, non poteva essere rimasto svenuto per troppo tempo — certamente non per i due minuti che aveva avuto l’impressione di trascorrere — altrimenti Michiko e gli altri gli sarebbero stati addosso, tastandogli il polso e allentandogli il colletto della camicia. Controllò l’orologio analogico sulla parete: in effetti erano le cinque e due minuti del pomeriggio.

Poi guardò Theo Procopides. L’espressione del giovane greco era più controllata di quella di Michiko, ma era guardingo come Lloyd, e fissava uno dopo l’altro tutti i presenti in sala, spostando lo sguardo appena uno di loro lo ricambiava.

Lloyd aprì la bocca per parlare anche se non sapeva bene che cosa dire. Ma la richiuse quando sentì un gemito provenire dalla porta aperta più vicina. Evidentemente lo aveva sentito anche Michiko; entrambi si alzarono contemporaneamente. Ma lei era più vicina alla porta, e quando Lloyd la raggiunse, la ragazza era già uscita nel corridoio. «Mio Dio!» stava gridando. «Va tutto bene?»

Uno dei tecnici — si trattava di Sven — stava cercando faticosamente di rialzarsi in piedi. Si teneva la mano destra sul naso, che sanguinava in modo vistoso. Lloyd si precipitò nella sala di controllo, staccò la cassetta del pronto soccorso dal suo alloggiamento sulla parete e tornò di corsa in corridoio. Tutta l’attrezzatura era all’interno di una scatola di plastica bianca; Lloyd l’aprì e cominciò a srotolare una benda di garza.

Sven cominciò a parlare in norvegese, ma si interruppe dopo un attimo, e ricominciò in francese: «Io… io devo essere svenuto.».

Il pavimento del corridoio era in mattoni; Lloyd vide la macchia rossastra di sangue nel punto in cui il volto di Sven aveva sbattuto. Porse la garza al tecnico, che lo ringraziò con un cenno del capo, poi ne fece un batuffolo e se la premette sul naso. «Una cosa assurda» disse Sven. «Come se mi fossi addormentato in piedi.» Fece una specie di risatina. «Ho addirittura fatto un sogno.»