Lloyd cercò di mantenere calmo il tono della voce. Era abituato a discutere di argomenti scientifici con altre persone, ma non con Michiko. Anche una discussione erudita aveva il suo aspetto personale. «Se nella visione tu ti trovi in Mongolia, finirai con l’andare in Mongolia. Oh, certo, tu hai tutta l’intenzione di non andarci mai, ma succederà, e sul momento sembrerà del tutto naturale. Tu sai bene quanto me che gli umani sono reticenti a realizzare i propri desideri. Puoi promettere oggi che domani ti metterai a dieta, e avere tutta l’intenzione di essere ancora a dieta fra un mese, ma in qualche modo, senza avere la sensazione che ti manchi il libero arbitrio, per allora potresti averla smessa da un bel po’.»
Michiko sembrò interessata. «Credi che debba mettermi a dieta?» Ma poi sorrise. «Stavo solo scherzando.»
«Però capisci quello che sto cercando di dire. Non c’è nessuna prova, nemmeno a breve termine, che noi siamo in grado di evitare le cose con un semplice atto di volontà; perché dovremmo credere che nell’arco di una ventina d’anni avremo l’autodeterminazione?»
«Perché dobbiamo averla» replicò Michiko, di nuovo eccitata. «Perché se non è così, allora non c’è via d’uscita.» Cercò gli occhi di Lloyd. «Ma non capisci? Tipler deve avere ragione. 0 se non ce l’ha, allora deve esserci un’altra spiegazione. Quello non può essere il futuro.» Fece una pausa. «Non può essere il nostro futuro.»
Lloyd sospirò. Lui l’amava, ma… che diavolo! Si ritrovò a muovere la testa avanti e indietro in segno di diniego.
«Io non voglio che quello sia il nostro futuro più di quanto lo voglia tu» disse con un filo di voce.
«E allora non lasciare che lo sia» disse Michiko, prendendogli la mano, e intrecciando le dita con le sue. «Non lasciare che lo sia.»
17
«Pronto?» Una gradevole voce femminile.
«Ah, pronto. È… è la dottoressa Tompkins?»
«Sono io.»
«Ah, salve. Sono… sono Jake Horowitz. Ti ricordi, quello del CERN?»
Jake non sapeva che cosa aspettarsi dalla voce all’altro capo del filo. Simpatia? Sollievo perché era stato lui a chiamare per primo? Sorpresa? Ma la voce di Carly non tradì nessuna di queste emozioni. «Sì?» disse lei, in tono vago. Tutto lì, un semplice ‘sì?’.
Jacob provò una stretta al cuore. Forse era meglio riattaccare subito, chiudere quella dannata conversazione. Non avrebbe fatto male a nessuno, se Lloyd aveva ragione, loro due sarebbero stati costretti a incontrarsi, alla fine. Ma lui non riusciva a convincersi che fosse così.
«Io… mi dispiace disturbarti» farfugliò. Non era mai stato bravo a parlare al telefono con le donne. E per dirla tutta non ne chiamava una — almeno una come quella — dai tempi del liceo, da quando aveva racimolato il coraggio per telefonare a Julie Cohan per chiederle un appuntamento. Gli ci erano voluti dei giorni per prepararsi, e ricordava ancora come tremavano le sue dita mentre componeva a tentoni il numero nella cantina di casa. Sentiva i passi del fratello maggiore sul pavimento di legno del piano superiore, che scricchiolava sotto il suo peso, quasi fosse una specie di Achab in coperta. Era terrorizzato all’idea che David potesse scendere e sorprenderlo al telefono.
Aveva risposto il padre di Julie, che poi aveva gridato alla figlia di rispondere dall’altro apparecchio… non aveva coperto il microfono e le aveva parlato con voce dura. Non certo come lui avrebbe trattato Julie. Poi lei aveva risposto dall’altro telefono, e il padre aveva sbattuto il suo sulla forcella, e Julie aveva detto, con quella sua voce magnifica: «Pronto?»
«Ah, ciao, Julie. Sono Jake… sai, Jake Horowitz.» Silenzio, niente. «Del corso di storia americana.»
Un tono di perplessità, come se le avesse chiesto di calcolare l’ultimo numero del pi greco. «Sì?»
«Mi chiedevo,» aveva detto lui, cercando di sembrare indifferente, cercando di apparire come se la sua intera vita non dipendesse da quella telefonata, come se il suo cuore non fosse sul punto di esplodere, «mi stavo chiedendo se tu… se ti piacerebbe, capisci, uscire con me, magari sabato… se sei libera, cioè.» Ancora silenzio; in quel momento gli era tornato in mente che quando era piccolo le linee frusciavano per le deboli scariche di elettricità statica. Adesso gli mancavano.
«Magari si può andare al cinema» aveva aggiunto, per riempire il vuoto.
Battito di cuore, poi: «Che cosa ti fa credere che io possa avere la minima voglia di uscire con te?»
La sua vista si era offuscata, il suo stomaco ribolliva, gli mancava l’aria. Non ricordava che cosa avesse detto dopo, ma in qualche modo era riuscito a riattaccare il telefono, in qualche modo era riuscito a non piangere, in qualche modo era rimasto seduto lì in cantina, ascoltando i passi di suo fratello al piano superiore.
Era l’ultima volta che aveva chiamato una donna per chiedere un appuntamento. Oh, lui non era vergine… naturalmente no, naturalmente no. Cinquanta dollari avevano guarito quel particolare handicap in una notte a New York. Si era sentito malissimo, dopo, sporco e volgare, ma il giorno in cui fosse stato insieme a una donna con la quale voleva stare, chiunque fosse, le doveva… be’, insomma, doveva essere se non esperto, almeno in grado di muoversi con sufficiente disinvoltura.
E adesso, adesso era come se fosse insieme a una donna… insieme a Carly Tompkins. La ricordava bellissima, la ricordava con i capelli castani e gli occhi verdi o grigi. Gli era piaciuto guardarla, ascoltarla, quando si era presentata alla conferenza della Società americana di fisica. Ma gli esatti dettagli del suo aspetto erano elusivi. Ricordava delle lentiggini… sì, certo, aveva le lentiggini, anche se non molte come lui, appena una spolveratina sull’arco del naso piccolo e delle guance piene. Certo non se lo stava immaginando…
Il perplesso ‘sì?’ di Carly risuonava ancora nelle sue orecchie. Doveva sapere perché la stava chiamando. Doveva…
«Noi staremo insieme» disse, lasciandosi uscire stupidamente di bocca la frase e desiderando di rimangiarsi le parole nel momento stesso in cui le pronunciava. «Fra vent’anni noi staremo insieme.»
La donna tacque per un attimo, poi disse: «Pare di sì.»
Jake si sentì sollevato; aveva temuto che lei negasse la visione. «Così stavo pensando,» disse «stavo pensando che forse potremmo conoscerci meglio. Sai, magari prendere un caffè insieme.» Il cuore gli batteva all’impazzata, lo stomaco gli ribolliva. Aveva di nuovo diciassette anni.
«Jacob» disse lei. Jacob: lo aveva chiamato per nome, e nessuno ha mai buone notizie da darti quando ti chiama per nome. Jacob, il che gli ricordò chi veramente fosse. Jacob, che cosa ti fa credere che abbia la minima voglia…
«Jacob,» continuò lei «io ho una relazione.»
Ma certo, pensò lui. Ma certo che ha una relazione. Una bella donna con i capelli castani e le lentiggini. Ma certo.
«Mi dispiace» disse Jake. Intendeva dire che gli dispiaceva averla disturbata, ma sperò che la donna capisse anche nell’altro senso. Gli dispiaceva che avesse una relazione.
«E poi» aggiunse Carly «io sono a Vancouver, e tu in Svizzera.»
«Alla fine di questa settimana devo andare a Seattle; qui sto facendo il dottorato, ma il mio campo è la costruzione di modelli al computer per le reazioni del fotone ad alta energia, e il CERN mi manda alla Microsoft per un seminario. Potrei… be’, avevo pensato di venire in America del Nord un giorno o due prima, magari passando per Vancouver. Ho accumulato tonnellate di punti come passeggero assiduo, non mi costerebbe nulla.»