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«Quando?» chiese Carly.

«Io… io potrei essere lì anche dopodomani.» Cercò di mantenere il tono sul discorsivo. «Il mio seminario comincia giovedì; il mondo può essere in crisi, ma la Microsoft tiene duro.» Almeno per il momento, pensò.

«Va bene» disse Carly.

«Va bene?»

«Va bene. Vieni al TRIUMF, se vuoi. Sarò felice di conoscerti.»

«E il tuo compagno?»

«Chi ha mai detto che è un compagno?»

«Oh.» Una pausa. «Oh.»

Ma poi Carly rise. «No, era solo una battuta. Sì, è un uomo… si chiama Bob. Ma non è una cosa così seria, e…»

«Sì?»

«E, be’, immagino che noi due dobbiamo conoscerci meglio.»

Jacob fu felice che il suo sorriso da un angolo all’altro della bocca non facesse rumore: Fissarono un appuntamento, poi si salutarono.

Gli batteva il cuore. Aveva sempre saputo che alla fine la donna giusta sarebbe arrivata; non aveva mai perduto la speranza. Non le avrebbe portato dei fiori… non sarebbe mai riuscito a farli passare alla dogana. No, le avrebbe portato qualcosa di decadente dalla Chocolats Micheli; la Svizzera, in fin dei conti, era la patria della cioccolata.

Con la fortuna che aveva, magari avrebbe scoperto che lei soffriva di diabete.

Il fratello minore di Theo, Dimitrios, viveva insieme ad altri tre compagni alla periferia di Atene, ma quando Theo gli suonò alla porta, la sera tardi, Dimitrios era in casa da solo.

Dim studiava letteratura europea all’Università nazionale capodistriana di Atene; fin da ragazzo aveva desiderato di diventare uno scrittore. Aveva imparato a leggere e scrivere prima di entrare a scuola e continuava a scrivere le sue storie sul computer di famiglia. Theo gli aveva promesso da anni di trasferire tutti i racconti di Dim dai dischetti da tre pollici e mezzo ai dischi ottici; nessun personal computer usava più i lettori di dischetti, ma le macchine del CERN avevano ancora qualche sistema obsoleto che li usava. Aveva pensato di rinnovargli l’offerta, ma non sapeva se fosse meglio che Dim pensasse semplicemente che lui se ne era dimenticato, o che si rendesse conto che erano passati degli anni — anni! — senza che il suo fratello maggiore trovasse tre minuti di tempo per esaudire quel semplice desiderio con l’aiuto di qualcuno del dipartimento informatico.

Dim gli aveva aperto in jeans — che moda superata! — e maglietta gialla con il logo di Anaheim, una serie televisiva americana molto seguita; perfino uno studente dell’ultimo anno di letteratura europea sembrava incapace di sottrarsi al fascino della cultura popolare americana.

«Ciao, Dim» disse Theo. Fino ad allora non aveva mai abbracciato suo fratello, ma adesso sentiva l’esigenza di farlo; trovarsi di fronte alla propria caducità favoriva sentimenti del genere. Ma certamente Dim non avrebbe saputo che farsene, di quell’abbraccio; loro padre, Constantin, non era un uomo espansivo. Anche quando l’ouzo scorreva più del necessario, lui poteva dare un pizzicotto sul sedere della cameriera, ma non aveva mai nemmeno sfiorato la testa dei suoi figli.

«Ciao, Theo» disse Dimitrios, come se lo avesse visto il giorno prima. Si fece di lato per lasciarlo entrare.

La casa aveva l’aspetto che ci si poteva attendere dall’abitazione di quattro ragazzi appena ventenni: un porcile, con capi d’abbigliamento sparpagliati sui mobili, scatole di cibo da portar via impilate sul tavolo della cucina, e ogni genere di apparecchi, inclusa una costosa piattaforma di realtà virtuale.

Era bello tornare di nuovo a parlare in greco; Theo si era stufato del francese e dell’inglese, il primo con il suo eccesso di verbosità e il secondo con i suoi suoni duri e sgradevoli. «Come te la passi?» domandò Theo. «Come va la scuola?»

«Come va l’università, vorrai dire» lo corresse Dim.

Theo annuì. Si era sempre riferito ai suoi studi post liceali come all’università, ma suo fratello, studiando lettere, era ancora a scuola. Forse Dim aveva interpretato la sua frase come una mancanza di rispetto; fra loro c’erano otto anni di differenza, un’eternità, ma ancora non sufficiente a garantire l’assenza di una rivalità tra fratelli.

«Bene,» Incontrò lo sguardo di Theo. «Uno dei miei professori è morto durante il Cronolampo, e uno dei miei migliori amici ha dovuto lasciare l’università per prendersi cura della famiglia dopo che i suoi genitori sono rimasti feriti.»

Non c’era niente da replicare. «Mi dispiace» disse Theo. «Non era previsto.»

Dim annuì e distolse lo sguardo. «Hai già visto papà e mamma?»

«Non ancora. Più tardi.»

«È stata dura anche per loro, sai. Tutti i loro vicini sanno che lavori al CERN… mio figlio lo scienziato, diceva sempre mamma. Mio figlio, il novello Einstein.» Dimitrios fece una pausa. «Adesso non lo dice più. Si sono presi un bel po’ di improperi da quelli che hanno perso i loro cari.»

«Mi dispiace» disse di nuovo Theo. Diede un’occhiata in giro per la stanza in disordine, cercando qualcosa per cambiare argomento.

«Vuoi bere?» gli chiese Dimitrios. «Birra? Acqua minerale?»

«No, grazie.»

Dimitrios tacque per qualche secondo, poi si diresse verso il salotto, seguito da Theo. Si sedette sul divano, spostando sul pavimento alcuni giornali e capi di vestiario per fare spazio. Theo trovò una sedia ragionevolmente sgombra e vi si accomodò.

«Tu hai rovinato la mia vita» disse Dimitrios, prima fissando e poi evitando gli occhi del fratello. «Voglio che tu lo sappia.»

Theo provò un colpo al cuore. «Come?»

«Queste… queste visioni. Dannazione, Theo, ma non capisci quanto sia duro mettersi davanti alla tastiera tutti i giorni? Non capisci quanto sia facile scoraggiarsi?»

«Ma tu sei uno scrittore formidabile, Dim. Ho letto le tue cose. Il modo in cui maneggi la lingua è splendido. Quel racconto su quell’estate che hai passato a Creta… hai catturato Cnosso alla perfezione.»

«Non importa… niente di tutto questo importa. Non capisci? Fra ventuno anni, io non sarò famoso. Non ce l’avrò fatta. Fra ventuno anni lavorerò in un ristorante, servendo souvlaki e tzatziki ai turisti.»

«Forse è stato un sogno… magari nel 2030 stavi sognando.»

Dim scosse la testa. «Ho trovato il ristorante, è dalle parti della Torre dei venti. Ho incontrato il proprietario: è lo stesso tizio che lo gestirà fra ventuno anni. Mi ha riconosciuto dalla sua visione e io l’ho riconosciuto dalla mia.»

Theo cercò di essere gentile. «Molti scrittori non si guadagnano da vivere scrivendo, lo sai.»

«Ma quanti proseguirebbero, anno dopo anno, se non pensassero che in futuro — magari non domani, ma più avanti, anche alla fine — sfonderanno? Che ce la faranno?»

«Io non lo so. Non ci ho mai pensato.»

«È il sogno che spinge l’artista ad andare avanti. Quanti oggi — proprio in questo momento — lottano per fare gli attori e stanno rinunciando perché le loro visioni gli hanno mostrato che non ce la faranno mai? Quanti pittori sulle strade di Parigi questa settimana hanno gettato via colori e pennelli perché sanno già che fra qualche decennio nessuno avrà mai sentito parlare di loro? Quanti gruppi rock, che suonano nei garage di casa, si sono sciolti? Tu hai rubato i sogni a milioni di noi. Qualcuno è stato fortunato, perché nel futuro dormiva. Visto che allora sognavano, i loro veri sogni non sono andati in frantumi.»

«Io… io non l’avevo mai vista in questo modo.»