Jake Horowitz la guardo con ana interrogativa.
«Ciò che è successo in quella visione» disse Carly, abbassando gli occhi «è stato passionale. Non era come due persone che stanno insieme da vent’anni.»
Jake alzò le spalle. «Io non voglio fare la muffa, non voglio invecchiare. La gente può avere una vita sessuale soddisfacente per decenni.»
«Non in quel modo. Non strappandosi i vestiti di dosso sul posto di lavoro.»
Jake corrugò la fronte. «Non si può mai dire.»
Carly tacque per qualche secondo, poi: «Vuoi venire a casa mia? Sai, ci prendiamo un caffè…»
Erano seduti in una caffetteria, in fin dei conti, perciò l’offerta non aveva molto senso. Il cuore di Jake batteva come un forsennato. «Certo» disse. «Sarebbe bello.»
19
Un’altra serata nell’appartamento di Lloyd, lui e Michiko seduti sul divano, e il silenzio fra loro.
Lloyd si mordicchiava le labbra, pensieroso. Perché non poteva semplicemente andare avanti e sposare quella donna? Lui l’amava. Perché non poteva semplicemente ignorare ciò che aveva visto? In fondo milioni di persone già lo facevano… per la maggior parte del mondo l’idea di un futuro immutabile era ridicolo. Lo avevano visto un centinaio di volte al cinema e alla TV: Jimmy Stewart si rende conto che la vita è meravigliosa dopo aver visto il mondo svelarsi di fronte a lui. Superman, disperato per la morte di Lois Lane, si mette a girare intorno alla terra così rapidamente da farla ruotare all’incontrario, consentendogli di tornare a un tempo precedente alla sua morte, e di salvarla. Caesar, figlio degli scienziati scimpanzé Zira e Cornelius, avvia il mondo lungo la strada della fratellanza fra specie diverse, sperando di evitare la distruzione della Terra nell’olocausto nucleare.
Anche gli scienziati si esprimevano in termini di evoluzione contingente. Stephen Jay Gould, prendendo a prestito una metafora dal film di Jimmy Stewart, disse al mondo che se fosse possibile riavvolgere la matassa del tempo, essa si dipanerebbe certamente in tutt’altro modo, e alla fine emergerebbe qualcosa di diverso dagli esseri umani.
Ma Gould non era un fisico; ciò che proponeva come esperimento ipotetico era impossibile. Il meglio che si poteva fare era una semplice ripetizione di quello che era accaduto durante il Cronolampo… spostare a un altro momento il segnalibro dell’adesso. Il tempo era fisso; ogni fotogramma era rimasto impressionato all’interno della macchina fotografica. Il futuro non era un lavoro in corso; era reale e tangibile, e per quante volte Stephen Jay Gould potesse guardare La vita è meravigliosa, Clarence avrebbe avuto sempre le sue ali…
Lloyd accarezzò i capelli di Michiko, domandandosi che cosa ci fosse scritto su quel particolare strato del blocco spaziotemporale.
Jake era sdraiato sulla schiena, un braccio piegato dietro la testa. Carly se ne stava accoccolata accanto a lui, e giocherellava con in peli del suo petto. Erano entrambi nudi.
«Sai,» disse Carly «ci è capitata proprio un’occasione magnifica.»
Jake sollevò le ciglia. «Eh?»
«Quante coppie possono contare su questo, oggi come oggi? La certezza che rimarranno insieme per altri vent’anni! E non solo insieme, ma sempre con la stessa passione, con lo stesso…» Si interruppe. Una cosa era discutere il futuro, un’altra, a quanto sembrava, dare voce prematura alla parola amore.
Rimasero in silenzio per un poco. «Non c’è qualcuna, no?» domandò alla fine Carly, con voce esitante. «A Ginevra?»
Jake scosse la testa, facendo frusciare i capelli rossi contro il cuscino. «No.» Poi deglutì, chiamando a raccolta tutto il suo coraggio. «Ma c’è qualcuno qui, vero? Il tuo compagno… Bob.»
Carly sospirò. «Mi dispiace» disse. «Lo so che una bugia è un modo orribile per iniziare una relazione. Io… senti, io non sapevo niente di te. E i fisici maschi sono dei tali sporcaccioni, davvero. Ho addirittura una vecchia fede che qualche volta metto al dito in occasione delle conferenze. Non c’è nessun Bob; ho solo fatto finta che ci fosse in modo da lasciarmi una facile via d’uscita, capisci, nel caso le cose non fossero andate bene.»
Jake non sapeva se sentirsi offeso oppure no. Una volta, quando aveva sedici o diciassette anni, stava chiacchierando con la ragazza di suo cugino Howie in una serata di giugno, proprio di fronte a casa di lui. C’era un gruppo di persone nei paraggi; avevano organizzato una cena all’aperto sul retro. Era buio, ed era una serata luminosa, e la ragazza aveva avviato una conversazione con lui quando si era accorta che Jake stava fissando le stelle. Lei non ne conosceva i nomi, e si era stupita che Jake fosse in grado di indicare la Stella polare, oltre ai tre angoli del triangolo estivo, Vega, Deneb e Altair. Aveva cominciato a mostrarle Cassiopea, ma non era facile distinguerla, seminascosta com’era dalle cime degli alberi che crescevano dietro la casa. Però voleva che la vedesse… la grande w nel cielo, una delle costellazioni più facili da individuare, una volta presa la necessaria confidenza con il cielo. E così aveva detto, vieni, attraversa la strada con me, dall’altra parte riuscirai a vederla. Era una graziosa strada periferica, priva di traffico a quell’ora di sera, con le case illuminate dietro i prati accuratamente rasati.
Lei lo aveva guardato e aveva detto: «No.»
Jake non aveva capito, almeno non prima di mezzo secondo. La ragazza pensava che lui potesse cercare di sbatterla a terra dietro un cespuglio, tentare di violentarla. Era stato travolto da emozioni diverse: si sentiva offeso per la sola idea… lui era il cugino di Howie, in fin dei conti! Ma anche triste: provava dispiacere per ciò che doveva significare essere donna, sempre sulla difensiva, sempre impaurita, sempre in cerca di vie d’uscita.
Jake aveva alzato appena le spalle e se ne era andato via, così sbalordito da non riuscire a pensare a qualcosa da replicare. Poco dopo le nuvole avevano coperto le stelle.
«Oh» disse Jake a Carly; non gli venne nessun’altra reazione alla sua menzogna su Bob.
Carly agitò le spalle. «Scusami, Una donna deve essere cauta.»
Jake non aveva pensato di sistemarsi, ma… ma… che bel regalo! Eccola lì, una donna bella, intelligente, che lavorava nel suo stesso campo; con in più la certezza che sarebbero rimasti insieme, sempre felici, per altri due decenni.
«A che ora devi andare a lavorare domani?» le chiese Jake.
«Penso che mi darò malata» rispose Carly. Jake si rigirò sul letto, guardandola in faccia.
Dimitrios Procopides era seduto sul divano pieno di cianfrusaglie, fissando la parete. Ci stava pensando fin dalla visita di suo fratello Theo, due giorni prima. Il fatto che a migliaia — forse a milioni — stessero rimuginando la stessa cosa non lo consolava affatto.
Sarebbe stato così facile farlo: aveva acquistato i tranquillanti con tanto di ricetta, e non aveva avuto problemi a trovare in rete tutte le informazioni sulla quantità necessaria per una dose fatale di quella particolare marca. Per uno, come Dimitrios, che pesava settantacinque chili, diciassette piccole pastiglie potevano essere sufficienti, e ventidue gli garantivano la certezza assoluta, mentre trenta lo avrebbero probabilmente fatto vomitare, annullando gli effetti.
Sì, poteva riuscirci. E sarebbe stato indolore… precipitare in un sonno profondo che sarebbe durato per sempre, tutto lì.
Ma c’era un comma 22: uno dei pochi romanzi americani che aveva letto gli aveva chiarito il concetto. Suicidandosi — non aveva paura di dirlo con chiarezza — poteva dimostrare che il suo futuro non era prefissato; dopotutto, non solo nella sua visione, ma in quella del gestore del ristorante, vent’anni dopo lui era ancora vivo. Perciò, se oggi si fosse ucciso — se avesse ingoiato adesso quelle pillole — avrebbe dimostrato in modo definitivo che il futuro non era immutabile. Ma sarebbe stato come le vittorie di Pirro sui romani a Eraclea e Asculum, il tipo di successo che porta ancora il suo nome, una vittoria che ha un prezzo orribile. Perché se si fosse suicidato, allora sarebbe voluto dire che quel futuro che lo aveva così depresso non era inevitabile… ma, naturalmente, lui non sarebbe più stato in vita per realizzare il suo sogno.