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«Un amico, e basta.» Lei guardò fuori del finestrino, continuando a fumare. Aveva un piccolo neo sopra l'angolo sinistro della bocca.

«Ho già lasciato qui altre ragazze.»

«Ma va'?» commentò la giovane senza il minimo interesse.

«Un paio di ragazze bianche.»

«Sul serio?»

Il semaforo diventò verde, e Gemini svoltò a destra. «Sono entrate in una di quelle grandi case, sai?» Le sorrise nello specchietto, ma lei lo ignorò.

«Puoi fermarti qui.»

Gemini accostò al marciapiede e mise in folle. «Quattro sterline.»

Lei uscì dall'auto, sbattendo la portiera e infilando un biglietto da cinque nella fessura del finestrino.

«Ah…»

«Sì?» fece lui, sollevando lo sguardo.

«Dovresti smetterla con quella stronzata della polizia», esclamò la ragazza, con un dito sollevato a mezz'aria e le sopracciglia sarcasticamente inarcate. «Perché, sai, ti fa sembrare una vera testa di cazzo!»

Poi si voltò e Gemini, raccogliendo la banconota che aveva sulle ginocchia, vide le sue gambe svanire nella luce del tramonto. Non se l'era presa.

«Hai un gran bel culo da negra sotto quella gonna, ragazza», sussurrò, continuando a sorridere. «Stasera qualcuno se lo godrà.»

Lei scomparve dietro la curva di Croom's Hill e Gemini lasciò avanzare la macchina di mezzo metro. Ma la ragazza era ormai svanita. Aspettò qualche istante, per vedere se ricompariva da dietro la curva, ma così non fu. Alcune zanzare svolazzavano pigramente sotto le luci di sicurezza di una casa. La strada era sempre deserta. Facendo schioccare la lingua e scuotendo il capo, Gemini mise un nastro di Shabba Ranks e si diresse verso East Greenwich.

Solo quando arrivò al pub si ricordò dell'ultima volta che aveva visto quella Shellene, quella di cui gli avevano chiesto i poliziotti: la settimana precedente, di lunedì. Dopo che glielo aveva succhiato, l'aveva lasciata esattamente nello stesso posto.

13

La casa: una grande villa in stile Regency, arretrata rispetto alla strada, circondata da un parco cinto da un muro e sovrastata da un boschetto di cedri dai tronchi contorti. Un tempo apparteneva a un ricco magnate del gruppo di Bloomsbury, che aveva commissionato la serie di trompe l'oeil, di murales in bianco e nero. C'era persino un'aranciera che, si diceva, fosse opera del celebre architetto Sir Edwin Lutyens. Gli ultimi visitatori della proprietà, se interrogati in proposito, avrebbero descritto giardini molto più grandi di quelli normalmente presenti in gran parte delle abitazioni cittadine. Ci si poteva perdere nei dedali di piante, siepi e susini coltivati a spalliera. Le rose bianche Pascali sbocciavano sulle piante rampicanti sostenute dai graticci, e le api sciamavano lungo i corridoi di tassi, alla ricerca delle piracante e delle fucsie.

Ormai, invece, strati e strati di foglie marcescenti si accumulavano accanto ai muri e, parzialmente nascosti vicino all'ingresso del garage, si scorgevano i resti di un cane, rimasto intrappolato in quel luogo dal dicembre del 1999. Durante il giorno, le tende restavano chiuse. La domestica era stata licenziata mesi prima, e, a poco a poco, diverse zone della villa erano diventate inabitabili. Harteveld vi si recava solo la notte, per frugare nel disordine. Durante il giorno, però, la pesante porta di quercia che si apriva su quelle parti della villa restava chiusa. Non poteva rischiare che qualche estraneo vedesse accidentalmente le sue cose. Le sue proprietà…

Quella sera aveva chiuso a chiave la porta e si trovava nella «zona pubblica», cioè nell'area che poteva mostrare ai visitatori, comprendente l'atrio, la cucina, il guardaroba, il piccolo studio e il soggiorno, dove stava in quel momento, accanto al caminetto, di fronte al ritratto dei genitori.

Aveva passato il pomeriggio a pulire, per evitare qualsiasi rischio per la serata, aveva attaccato un tubo al lavandino della cucina principale e inondato di disinfettante la zona adibita alla raccolta dei rifiuti. Ma l'odore aveva avuto la meglio. Lo si sentiva sempre… E a quel punto aveva esitato, la mano appoggiata sulla vecchia porta. Era rimasto a fissare i pannelli intarsiati, i bambù e i ponti lunghi ed esili che sorreggevano le geishe col parasole. No. Si voltò. Non c'era nulla che potesse fare per quel disastro, là dentro.

Inghiottì due compresse di buprenorfina con l'aiuto di un po' d'acqua e di pastis. Quindi aprì una tabacchiera di lapislazzulì e, con l'unghia lunga e affilata del mignolo, si infilò una presa nella narice sinistra. Si sfregò il resto sulla gengiva, e chiuse gli occhi per un istante.

Se non fosse arrivata presto, sarebbe esploso.

Si morse il labbro e fissò il ritratto dei genitori: Lucilla e Henrick.

No, rifletté, no: non sarebbe esploso. Doveva rimanere appoggiato alla cappa del caminetto e aspettare finché non fosse stato sicuro del suo equilibrio: poi si sarebbe proteso e, con grande precisione, senza creare troppo scompiglio, avrebbe strappato a morsi la faccia di Lucilla dalla tela.

14

«Campo di sterminio.»

Quelle parole balzarono agli occhi di Jack dai manifesti pubblicitari delle edicole mentre era diretto al St. Dunstan's. La notizia era stata confermata dalla polizia la sera precedente, e ormai la stampa aveva invaso Greenwich, intasando le strade, infastidendo i residenti, accampandosi accanto all'area. All'area industriale. L'articolo di fondo del Sun era intitolato: «Il terrore del millennio» e presentava le foto a colori di Shellene, di Petra, della Wilcox e di Kayleigh sopra l'immagine in bianco e nero della zona industriale stessa. Il Mirror recava un'unica foto, quella di Kayleigh: la ragazza indossava un abito rosso ciliegia, che le lasciava le spalle scoperte, e sollevava un bicchiere in direzione della macchina fotografica. C'erano, ovviamente, i soliti paragoni coi coniugi West, le foto del 25 di Cromwell Street. «Com'è potuto ripetersi?» chiedeva il Sun. Il Mirror, com'era prevedibile, aveva soprannominato il killer «lo squartatore del millennio». Jack aveva scommesso con Essex che, fra tutti gli appellativi, quello sarebbe stato il preferito.

Il resto dell'AMIP stava lavorando con l'Intelligence a Dulwich, concentrato su Gemini. L'intenzione era di controllare se non fosse già stato arrestato o venisse ricercato da un'altra unità della Met. Il tempo a disposizione era poco, Jack lo sapeva bene, quindi andò all'ospedale St. Dunstan's da solo. Parcheggiò ai piedi di Maze Hill, dove finivano i tigli e i muretti rossi del Greenwich Park.

La gente che lavora in ospedale è tosta. Nessun magistrato di questo Paese emetterà un mandato che ci autorizza a esaminare gli archivi di un intero ospedale soltanto perché un detective ancora in fasce ha una «sensazione».

Ma ormai era più di una semplice sensazione: Jack riteneva che l'uomo cui dava la caccia conoscesse quell'edificio. Qualsiasi strada avesse imboccato, sapeva che l'avrebbe portato lì. Rimase per un attimo fuori dell'ospedale, credendo di scorgere una stonatura negli edifici grigi, nei moduli prefabbricati illuminati dalla luce gialla del sole. Il cielo sopra il camino dell'inceneritore era dello stesso azzurro saturo, surreale, dell'ombretto di Joni, e sembrava quasi annullare ogni prospettiva, tra quei parallelepipedi alla Mondrian. Ma subito dopo si rese conto che stava ridisegnando il cielo, il mondo, adattandoli alla sua visione di quel luogo, e che le linee degli edifici erano diritte, le finestre erano del tutto normali. Si sistemò la cravatta e aprì le porte antincendio, lieto di poter riposare gli occhi.

Dentro, l'ospedale appariva squallido: i corridoi erano roventi a causa dei vapori delle cucine e delle sterilizzatrici, e una luce fluorescente difettosa lampeggiava. Jack era solo: l'unica compagnia era il rumore dei suoi passi che riecheggiavano. Uno storno svolazzava tra i tubi sul soffitto e, mentre Jack apriva la porta su cui si leggeva la scritta PERSONALE, lasciò cadere una minuscola sfera di escrementi bianchi.