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In preda al panico, Harteveld fece, da solo, alcuni rozzi tentativi con la terapia di avversione. Scrisse a un gruppo di ricercatori negli Stati Uniti chiedendo che gli inviassero un certo quantitativo di Depo-Provera e, allorché questi rifiutarono, provò a iniettarsi diacetilmorfina prima di una lezione di anatomia. Ma la sostanza scatenò in lui una nausea tale da non consentirgli di reggersi in piedi. E, peggio ancora, non pose freno alle visioni.

Ma fu solo sei settimane dopo, quasi alla fine del primo trimestre, cioè poco prima di Natale, che si verificò la catastrofe vera e propria.

I tecnici di laboratorio si erano trattenuti più del dovuto a una festa e non avevano riposto i campioni anatomici nei contenitori, in anticamera. Nauseato e tremante al pensiero delle possibilità che ciò avrebbe implicato, Harteveld, rimasto lì, ignorato da tutti, dopo l'ultima lezione di anatomia del trimestre, si accovacciò nell'angolo, all'altezza delle lucide valvole pneumatiche che sollevavano e abbassavano i tavoli settori.

Erano le due del pomeriggio e la cruda luce del nord si stava già affievolendo. Il vecchio impianto di riscaldamento gemeva e vibrava nel ventre dell'edificio, ma nel laboratorio l'aria era gelida e stantia. Harteveld si abbracciò le ginocchia e prese a dondolare lentamente, osservando i cadaveri illuminati dalla fievole luce da ibernazione, la pelle scorticata in aree precise delle braccia, le pinze, i lacci emostatici, i divaricatori che spuntavano come piccoli aculei dalla carne fredda e grigia del loro addome. Lei si trovava nel centro della stanza. Da lì, riusciva a vedere lo smorto ventaglio dei suoi capelli.

Poi la grande porta in fondo al laboratorio si aprì.

La sicurezza.

Il cuore di Harteveld sembrò fermarsi. Non dovevano trovarlo lì. Doveva alzarsi e fingere di star raccogliendo qualcosa. Subito, ora. Ma le gambe gli tremavano, inutili. Avvertì un sudore gelido sul capo. Era in trappola.

Ma poi accadde qualcosa che cambiò tutto.

La guardia chiuse a chiave la porta dall'interno e tirò le tende.

18

Alle dieci e mezzo, quando Jack lasciò Shrivermoor, la sera era ancora calda. Non accese l'autoradio e guidò in silenzio verso casa, pregustando un bagno e un whisky di malto. Al di là dei problemi estemporanei – la stanchezza, i semafori, i fari troppo intensi sulla South Circular -, era acutamente consapevole del nuovo inquilino che si era stabilito nei suoi pensieri. Aveva l'aspetto di un'immagine deformata, sul fondo di un lago agitato, dello schizzo di una figura, di una figura vera, quella di Birdman.

Un necrofilo. Come avevano fatto a non capirlo subito?

Svoltò a sinistra a Honor Oak, esattamente dall'altro lato di Peckham Rye, e, dietro gli alberi, sfilarono le chiazze bianche, spettrali, delle lapidi del cimitero di Nunhead. La carriera maledetta di Birdman prese forma nella sua mente. Un uomo – alto? basso? – acquattato come un incubo, nero come un corvo, gli occhi colmi di eccitazione, che faceva scorrere le mani su un cadavere. I morti e i non morti. Un'alleanza empia.

In sottofondo, il fuoco di fila delle domande prive di risposta continuò: un uccellino vivo cucito in una cavità corporea, molto tempo dopo la morte. Perché? E perché non riesci a dimenticare quell'immagine? I tagli strani, metodici sul cuoio capelluto… tranne che su Kayleigh… Perché non su di lei? In che modo Birdman immobilizzava le vittime per l'iniezione? Quel problema gli suscitava un malessere del tutto particolare. Gli suggeriva la presenza di un controllo mentale… peggio ancora, di una tossina che la moderna medicina legale non era capace d'identificare.

Parcheggiò l'auto sotto il platano del vicino e scese stancamente. La testa gli martellava. Tutto ciò che desiderava in quel momento era un po' di tranquillità. Si buttò la giacca sulla spalla. Un Glenmorangie e un bagno.

Ma qualcosa d'innaturalmente pallido lo stava aspettando nell'ombra, sulla porta di casa.

Jack si fermò, la mano sul cancello, mentre gli occhi si adattavano al buio della notte. Quando vide che cosa riluceva nella penombra, capì che era opera di Penderecki.

Due bambole nude, del colore dei bambini senza vita, gli arti di plastica uniti, viso-genitali, viso-genitali. Sul gradino, davanti a esse, un messaggio scritto sullo scontrino rosa di un'agenzia ippica: FAR SUONARE IL MIO TELEFONO È COME FAR SUONARE LA TUA ORA.

Jack si sbottonò il polsino della camicia, lo allungò fino a coprire la mano e girò attentamente quel groviglio. Una bambola dai capelli biondi di nylon si girò verso l'esterno e gli occhi spalancati lo fissarono. Le braccia erano sollevate, come se stessero per afferrare un pallone da spiaggia. Una Barbie o una Tanya. Seni lisci, privi di capezzoli, la vita del diametro di un dito e, disegnata oscenamente sulla plastica digradante in mezzo alle gambe, grossa come se fosse infetta, una vulva di un rosso inchiostro inquietante.

In perfetto stile Penderecki.

Jack sfiorò l'altra bambola e la girò sulla schiena. Un Action Man o un GI Joe, lo stesso sguardo vitreo e gli stessi genitali disegnati, le stesse braccia rigide, supplicanti, il marchio HAMBRO stampigliato nella zona lombare.

E, quello, Jack lo riconobbe. Era uno dei giocattoli di Ewan.

Ricordava chiaramente il mistero della sua scomparsa. Un pomeriggio soleggiato, all'inizio degli anni 70. Prima di pranzo, il bambolotto stava disteso a faccia in giù nell'erba del giardino sul retro, immobilizzato dal peso delle granate e delle borracce in miniatura. Dopo pranzo era scomparso. Svanito. «Be', Ewan», aveva detto la madre, notando il loro stupore e lanciando un'occhiata sospettosa al cielo, «forse è stato rapito da un corvo.» E il giorno seguente lei aveva comprato un altro Action Man da Woolworts, a Lewisham. «Guarda le sue mani, Ewan. Possono afferrare le cose. Non è più bello?»

Non era nuova, quella sottile tortura inflittagli da Penderecki. Jack raccolse le bambole, trovò le chiavi e spinse fiaccamente la porta d'ingresso.

La luce della cucina era accesa. E c'era una pila di camicie piegate sull'asse da stiro.

Veronica.

Stanco com'era, non aveva notato l'auto.

Sii buono con lei, Jack. Non dimenticarlo, è malata.

In cucina, gettò la giacca sulla sedia, prese un po' di pellicola trasparente e avvolse separatamente le due bambole, preparandole per essere archiviate nella stanza di Ewan. La padella Le Creuset era sulla mensola del camino, e dal soggiorno si diffondevano le note della Rapsodia in blu insieme coi piacevoli aromi della cucina, zenzero e coriandolo. Dalla mensola prese un bicchiere e il Glenmorangie, e se ne versò una dose abbondante. Il corpo gli doleva per la stanchezza. Desiderava il silenzio, il suo whisky, il bagno e poi il letto. Nient'altro. Sicuramente non Veronica.

«Jack?»

«Sì, ciao», rispose lui con tono mesto in direzione dell'atrio.

«Ho deciso di venire, spero non ti spiaccia.»

Be', Veronica, cambierebbe qualcosa se mi dispiacesse?

«Sali.»

Si trovava nella stanza di Ewan. Perché gravitava sempre intorno a quella stanza? Prendendo le bambole e il whisky, Jack salì lentamente le scale.

Lei era seduta sul pavimento. Indossava un tailleur blu marine di ottima fattura, con polsini bianchi inamidati e bottoni d'oro. Si era tolta le scarpe, gettandole via, e lui scorse, attraverso i collant color carne, le pallide mezze lune delle sue unghie. Sparpagliato intorno a lei c'era il contenuto dell'intero archivio su Penderecki.

«Veronica?»

«Sì?»

«Che cosa stai facendo?»

«Sto riordinando l'archivio. Ho pensato che gli invitati potrebbero dare un'occhiata alla casa, perciò lo sto sistemando.»

«Be', non farlo.» Jack posò il whisky e le bambole avvolte nella pellicola trasparente sul tavolo e iniziò a raccogliere il materiale. «Non farlo, e basta.»