«Mi parli della donna. Era vestita?»
«No. Era avvolta in un sacco per le immondizie. Credo che alcuni della sua squadra l'abbiano preso come prova o qualcosa del genere. Hanno setacciato il luogo in lungo e in largo. Prima ancora che la tirassi fuori, avevano già delimitato la zona.»
«Dobbiamo proteggere il luogo di un crimine», spiegò Maddox, un po' imbarazzato. «Per impedire eventuali contaminazioni…»
«Sì, sì, lo so», lo interruppe Benton. «Non intendevo criticare.»
«Ma certo… Che cosa può dirmi delle ferite?»
«Sono brutte. E sono tante. Probabilmente quella donna morirà per emorragia, se non per setticemia. Il medico ha dichiarato che presenta insufficienza respiratoria da pneumococco e blocco renale; l'hanno attaccata all'ossigenatore. Quando sono arrivato, ho visto che era cosciente solo a tratti.»
«Dove si trovano i tagli?»
«Sul seno», rispose Benton. «È stata ricucita. Sulle prime, ho pensato che fosse stata sottoposta a qualche intervento chirurgico… non so, un lavoro da macellaio. Ma il marito ha cominciato a spiegarmi il modo in cui era scomparsa, e allora l'ho caricata sulla barella e…»
«E?»
«Non sono un genio, ma anch'io ho notato che c'era qualcosa di strano.»
«Qualcosa di strano?»
«L'infezione era così diffusa da rendere molto difficile individuarle, ma le suture erano tutte… Come dire? Be', sì, da folle.»
Jack si guardò le mani. «E la testa?» chiese poi.
«La donna è stata schiaffeggiata un paio di volte ed era truccata pesantemente, come una… sgualdrina. Il marito pensa che le abbiano anche tagliato i capelli. Ripeteva: 'Perché le ha tagliato i capelli? Perché le ha tagliato i capelli?' come se quella fosse la cosa più importante al mondo.»
«Niente parrucca…» mormorò Jack.
Benton lo fissò. «Come?»
Jack si alzò in piedi e s'infilò la giacca. «Niente», rispose e, guardando Maddox, aggiunse: «Devo dare un'occhiata alla signora Lister. Ci rivediamo sul posto tra quanto? Due ore?»
«Dove stai andando?»
«Non ci metterò molto. Ho un'idea… Lasci che ne parli prima con qualcuno a Lambeth… Vediamo se sono sulla strada giusta.»
Era distesa su un lenzuolo blu, supina, le braccia aperte, la faccia rivolta alla porta proprio come se stesse aspettando un visitatore, ma, a un certo punto, stanca di aspettare, si fosse messa a dormire. Le ciocche di capelli sugli occhi lividi erano quasi bianche, del colore della sabbia schiarita dal sole. Qualcuno l'aveva lavata in modo approssimativo, ma la sua bocca era ancora macchiata di rossetto rosso, e mani e unghie erano sporche di… polvere.
Il vetro si appannò per il suo respiro. Jack allungò il polsino della camicia e lo pulì.
Era comparsa un'infermiera: stava in piedi e controllava la flebo, oscurandogli la visuale. Jack si allontanò dalla porta. Aveva visto tutto ciò che gli serviva.
«È come le altre?»
«Proprio così, signor Caffery. È assolutamente identica alle altre.»
Jack aveva capito.
Si stava facendo buio quando parcheggiò fuori dei laboratori della Scientifica a Lambeth Road, il parabrezza della Jaguar costellato di moscerini. Le luci dell'atrio proiettavano le lunghe ombre delle piante di yucca sul mosaico in corridoio che raffigurava Catherine Howard, la quinta moglie di Enrico VIII, col rosario tra le mani.
L'addetto alla sicurezza si alzò dal banco e consegnò a Jack un pass. «Le dirò che sta salendo, ma lei dovrà uscire entro dieci minuti, signore, perché stiamo per chiudere.»
Lei gli andò incontro all'ascensore. Indossava pantaloni da jogging color grigio marna, una felpa verde e un paio di Reebok, e teneva in mano una lattina aperta di Coca-Cola. Jack fece scorrere lo sguardo sui capelli grigi tagliati corti e sul corpo slanciato – gli arrivava quasi alla spalla – e trovò la dottoressa Jane Amedure stranamente bella.
«Mi spiace, detective Caffery», mormorò lei, poi gli fece strada lungo corridoi silenziosi alle cui pareti erano appese file regolari di stampe Audubon. Superarono guardie che effettuavano i controlli dell'ultimo minuto e tecnici che si stavano togliendo i camici usa e getta. «Mi spiace per la notizia, e mi spiace averla dovuta dare a terzi», aggiunse la Amedure. «Ho cercato di chiamarla ma…»
«Non… non si preoccupi. Grazie per l'aiuto, ma non è questo il motivo per cui sono qui.»
Lei gli lanciò un'occhiata in tralice. «E purtroppo non credo che lei sia qui per invitarmi fuori. Quindi la mia astuta mente di scienziata può giungere a un'unica risposta: lei è venuto per Harteveld.»
Jack sorrise. «Lei è in gamba.»
«Va bene, allora», disse la Amedure, tenendogli aperta la porta del suo ufficio. «Abbiamo avuto tutto dalla sua squadra, oggi: i campioni di Harteveld, un capello molto interessante…»
«Le larve…»
«Oh, sì. Anche quelle piccole bastarde. Grazie a Dio, sono già state spedite al museo di storia naturale. Il dottor Jameson effettuerà un test sull'intero campione: ricreerà l'ambiente in cui si trovavano e le osserverà nella fase in cui si trasformano in crisalidi.» La Amedure gli porse una sedia e s'infilò dietro una scrivania ricoperta di pile di carta, lattine di Coca-Cola, posacenere. Una lampada da tavolo orientabile era stata abbassata sulla superficie di lavoro e, appoggiata alla finestra dietro la donna, una maschera funebre nigeriana fissava l'ufficio. «A prima vista, sembra tutto a posto… Un paio di anomalie, è vero, ma per il resto pare esattamente uguale alle altre.»
«Lo so. È quello che ha affermato Krishnamurthi. Ed è quello che mi preoccupa.»
«Che cosa la preoccupa?»
Lui avvicinò la sedia alla scrivania. «Mi spieghi soltanto una cosa: le mosche della carne, quelle che hanno deposto le uova nelle ferite…»
«No, no. Non si tratta di uova. La nostra piccola amica, la mosca della carne, non depone uova. Depone larve.»
«Sempre nelle ferite?»
«Sì.» La Amedure sollevò una lattina di Coca-Cola e la scosse. Vuota. Passò alla successiva, cercando d'identificare quella che aveva appena posato. «Ora, da quel poco che capisco di entomologia, succede questo: le mosche della carne depongono le larve sulle mucose, vale a dire su bocca, ano, vagina, occhi, narici e via discorrendo. Nei casi di morti violente che si verificano, tanto per dire, in un giardino, ci sono ferite, sangue… e, mentre i ditteri si mettono al lavoro, le mosche si annidano nelle ferite.»
«Ma questo non è successo con la Jackson, vero?»
«Con nessuna delle vostre vittime. Sebbene la mosca della carne sia larvale, come i ditteri, non passa attraverso uno stadio intermedio tra due mute; così abbiamo scoperto che era arrivata in seguito. Il che per noi è stato illuminante: abbiamo capito che le ferite sono state infette dopo il decesso. I livelli di serotonina nelle lesioni ci hanno aiutato a essere più precisi sui tempi.» La Amedure identificò infine la lattina piena. Ne bevve un sorso, poi guardò Jack e proseguì: «Probabilmente c'è un vuoto temporale che va dalle sessanta alle settantadue ore».
«Sessanta ore? Questo è il minimo?»
«È solo una stima.»
«D'accordo, ma quando, secondo lei, hanno deposto le larve?»
«All'incirca? Parandomi al meglio il culo? Direi… hmm… mercoledì mattina. Come negli altri casi: un vuoto di circa tre giorni.» Tacque per un istante e abbassò la lattina. «Può essere importante?»
«Sì», rispose lui portandosi una mano alle tempie. Harteveld era sotto sorveglianza da martedì pomeriggio. Alle dieci del mattino di mercoledì era morto. «Dottoressa Amedure…» continuò, lasciando cadere la mano e sollevando lo sguardo. «Su tutte le vittime c'era polvere di cemento.»