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Il suo lavoro, all'ombra della London Bridge Station, gli consentiva di studiare; era incaricato di controllare i pass, indirizzare i visitatori, nonché rimanere al gelo, nel container del parcheggio antistante il dipartimento di patologia, e a settimane alterne, da solo, di notte, ispezionare i locali: i corridoi dai pavimenti lucidi, le mense vuote pervase dall'odore di purè e latte acido, le sale conferenza, il laboratorio di patologia e quello di anatomia.

Quel laboratorio di anatomia dove, un inverno di sedici anni prima, si era creato un legame inestricabile tra la sua vita e quella di Harteveld.

Il loro era stato un incontro singolare, un incontro di menti deformi. Si erano guardati, tra i corpi ricoperti dai teli verdi e i tavoli settori in acciaio, e all'istante avevano saputo, con la stessa incrollabile certezza di due amanti, di aver trovato l'anima gemella. Non c'era stato neppure bisogno di spiegare a parole la lotta interiore che li tormentava. L'aristocratico, dal portamento fiero e dalla costituzione robusta, l'aveva guardato e di slancio, con semplicità, lui aveva compreso.

Non avendo passato gli esami annuali, aveva abbandonato prima il sogno di laurearsi e poi anche il lavoro. Pure Harteveld se n'era andato dall'UMDS, ma la lealtà tra l'erede della fortuna di un'azienda farmaceutica e l'ex addetto alla sicurezza aveva sfidato il tempo.

Il loro particolare, specifico interesse era rimasto lo stesso.

C'erano stati quattro o cinque stupri nel corso degli anni: nei parcheggi, nei boschi, ragazze troppo ubriache per ricordarsi la targa della macchina guidata da un uomo di bassa statura che, dopo aver accostato al marciapiede, aveva offerto loro un passaggio. Ecco com'era arrivato a sud del fiume. Lei era una spogliarellista di Greenwich. Era il giorno del suo compleanno, erano le due del mattino, e l'aveva trovata mentre girovagava per le strade a nord del Rotherhithe Tunneclass="underline" faceva l'autostop. Era la cosa più bella che avesse mai visto, con la minigonna a frange e la giacca in pelle, i capelli biondi da svedese con la frangia. Persino in quel momento, nell'umido bagno di Lewisham, ripensando all'intenso amore che aveva provato per Joni, prese involontariamente a mugolare.

Si era lasciata cadere sul sedile anteriore dell'auto e, non appena lui le aveva toccato il morbido corpo schiacciato dalla cintura di sicurezza, dalla sua bocca era uscito un gemito. Sotto la giacca di pelle, il cuore aveva palpitato, come un gracile uccellino. Solo quando lui aveva cercato di alzarle la gonna lei aveva opposto resistenza. Era uscita dall'auto, incespicando, ubriaca, ed era rimasta seduta rigidamente sul marciapiede, il trucco bluastro sbavato. Lui era sceso e aveva tentato di toccarla di nuovo, ma lei lo aveva respinto ancora.

«Non ora, d'accordo?» aveva mormorato. «Mi sento male.»

Lui era rimasto con lo sguardo fisso sui capelli biondo cenere, sulle calze smagliate alle ginocchia e, improvvisamente, aveva deciso di non violentarla.

Proprio così.

Aveva cambiato idea. L'aveva accompagnata a casa, augurandole la buonanotte. Proprio così. Come se non fosse successo niente. Come se quel comportamento per lui fosse normale.

Dopo si era sentito onesto, euforico, rinato. E aveva deciso che la sua generosità nei confronti della ragazza era un segno d'amore. La desiderava tanto che gli veniva il mal di testa quando pensava a lei.

Ma Joni rifiutava le sue avance, si arrabbiava se lui andava a vederla al pub, e si era addirittura infuriata venendo a sapere che aveva trovato un nuovo lavoro al St. Dunstan's, acquistando inoltre l'appartamento di una vecchia signora al pianterreno di una casa ristrutturata a Lewisham, a un chilometro e mezzo da casa sua, a Greenwich.

La rabbia dimostrata dalla ragazza nei suoi confronti non lo scoraggiava: lei era la sua ragione di vita. L'appartamento era un santuario dedicato a lei: la fotografava per strada, le pagava da bere al pub. Talvolta Joni gli regalava qualche momento di piacere, spesso fumava o beveva tanto da addolcirsi e gli permetteva di portarla a casa: lui la lasciava dormire nel letto per gli ospiti, ma senza toccarla. Mai, nemmeno una volta. Non era quello che voleva. Doveva essere lei a venire da lui. Questo era importantissimo. Teneva l'appartamento sempre pulito, nella dolorosa speranza che la ragazza avesse capito quanto lui l'amava. Se veniva a stare da lui, nascondeva le foto, custodite come un tesoro, curando ogni minimo particolare, spruzzando nell'appartamento profumi per rinfrescare l'ambiente… A Joni piacevano molto i profumi dolci.

Infine, stanca e rassegnata, lei era arrivata a sopportarlo. E lui, a sua volta, aveva imparato a tollerare le sue sconsiderate infedeltà, i suoi flirt occasionali, il suo rifiuto di toccarlo. Anche in quel giorno di quattro anni prima, quando lei si era presentata col seno gonfiato grazie a un intervento di chirurgia estetica. Anche allora, sebbene furioso, era riuscito a rimanere calmo, gentile. Non importava quello che faceva Joni nella realtà, nel mondo tridimensionale, perché lei viveva in lui, in un mondo creato dalla sua fantasia, com'era stata quella notte, calda e docile, coi morbidi seni appuntiti e il respiro affannoso.

Quando tornò in cucina, uno dei malconci diamantini aveva trovato la forza di raggiungere il posatoio e lo fissava coi piccoli occhi lucidi. Lui borbottò qualcosa e scosse violentemente la gabbia, finché l'uccellino, privo di forze, non cadde di nuovo sul fondo, troppo stordito e affamato per volare. Rimase lì, appoggiato su un fianco, ansimante, con un occhio rivolto al padrone, il quale finì gli M &M, accartocciò il pacchetto e iniziò a prepararsi.

43

La porta fu aperta da una donna che portava veramente lenti bifocali. Aveva i capelli grigi molto corti e le mani grandi, e indossava un cardigan, una gonna di tweed che le copriva i fianchi robusti e scarpe da passeggio di pelle marrone. Quando Jack le mostrò il distintivo e le spiegò che volevano informazioni sul vicino del piano di sopra, abbozzò un sorriso e aprì la porta.

«Immagino desideriate una tazza di tè, signori.»

Jack rimase immobile per qualche secondo, fissando la porta chiusa in cima alle scale, poi fece scorrere un dito sulla ringhiera, e se lo pulì sul polsino bianco: niente, nessuna traccia. Allora entrò, seguito di malavoglia da Paul, ancora incerto se fidarsi della donna.

«Non conosco i loro nomi», stava dicendo lei. «Della coppia di sopra, cioè.»

«Ha detto 'coppia'?» esclamò Jack. Quindi ha davvero una fidanzata…

«Sono quei due che v'interessano, vero?»

Lasciando la porta aperta, la donna li condusse lungo un piccolo corridoio con le pareti di cartongesso, ricavato da una stanza dal soffitto molto alto. Nel vedere i fantasiosi poster alle pareti – una donna alla Geiger dal seno argenteo, alcuni motociclisti dai lunghi capelli con lucide moto alate e circondati da draghi -, Paul afferrò Jack per la manica e gli bisbigliò: «Bisogna controllare per bene questo posto…» Poi, mentre seguivano la donna nel soggiorno, entrambi notarono che, dal soffitto a specchi, pendevano varie nappe e scialli indiani, mentre, al fianco di una lampada Lava, si trovava una specie di narghilè afgano di tek.

«Li sento parlare», continuò la donna, sistemando un cuscino arancione sul divano, «mio figlio sa sicuramente come si chiamano, ma ora non c'è, è in vacanza.» Tacque per un istante, rimanendo col cuscino tra le mani, e tutti e tre si guardarono, confusi. All'improvviso, lei scoppiò a ridere.

«Oh, mi spiace, non mi sono spiegata.» Gettò via il cuscino e si passò le mani sulla gonna. «Vi prego di scusarmi.» E, tendendo la mano a Jack, aggiunse: «Mi chiamo Mimi Cook. Trascorro molto tempo in questa casa cercando di tenerla pulita e in ordine e a volte dimentico di non essere nel mio appartamento».

«Cook?» mormorò Paul, guardandosi alle spalle, come se fosse passato qualcuno.