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Ma ora tutto era cambiato, eccome. La sua vita era stata riscritta. Come se un giorno si fosse svegliato e avesse scoperto che il sole era di un altro colore.

Si alzò dal divano, si recò in cucina, preparò il tè e riempì un piatto di biscotti. Poi depose tutto sul cuscino accanto alla testa di Joni. La ragazza si stiracchiò, portandosi una mano al viso.

«Svegliati. Ti ho preparato il tè.»

Lei alzò il capo e sbirciò con gli occhi arrossati. Quando vide Bliss mugugnò e si lasciò cadere di nuovo sul cuscino. «Oh, no.»

«Bevi il tè.»

«No. Devo andare a casa.» Si sollevò sui gomiti e si guardò intorno, con la vista annebbiata. «Oddio, Malcolm, mi dispiace, ma non avevo intenzione di finire qui.»

«Mangia un biscotto, prima.» Aveva la lingua impastata: non riuscì a pronunciare bene la esse.

«No, ti ringrazio.»

«Insisto.»

«No, davvero.»

«Insisto!»

Joni spalancò gli occhi.

«Mi dispiace», mormorò lui, asciugandosi un filo di saliva dalle labbra. «Vorrei che mangiassi qualcosa. Devi rimetterti. Guardati…» – con la lingua tra i denti allungò una mano e le palpò lo stomaco -, «sei tutta pelle e ossa.»

Voleva essere un gesto tenero, ma Joni reagì malamente, e si ritrasse contro il muro. «Giù le mani!»

«Ma, Joni…»

«Lasciami sola, Malcolm.»

«Fammi solo toccare…»

«Quante volte te lo devo dire? No!» Lei arretrò ancora e cadde dal letto, ma Bliss si lanciò in avanti e l'afferrò per la T-shirt. Allora Joni si girò e gli prese le mani, cercando di fargli mollare la presa con le sue unghie affilate. «Lasciami.»

«Joni…»

«Togli quelle fottute…» Avvicinò le sue mani alla bocca e lo morse, facendogli sanguinare la nocca del pollice. «… levami quelle manacce di dosso.»

«Non fare così, Joni.» Le sue dita erano coperte da un miscuglio di saliva e di sangue. Lui si chinò, socchiuse gli occhi e la tenne stretta: Joni perse l'equilibrio e cadde di nuovo, colpendo il battiscopa con la spalla.

Lui la lasciò e si tirò indietro, ansimando.

Si guardarono in silenzio. Joni era stesa sulla schiena, la T-shirt arrotolata sul ventre, la sagoma del pube nettamente delineata sotto le mutandine rosa. Sembrava una bambola, stupita del fatto di essersi rotta tanto facilmente. Per un momento parve respirare con difficoltà.

Malcolm si avvicinò, allungò una mano. «Joni.»

«Va' via. Vattene.»

«Ma io ti amo.»

«Stronzate», ribatté lei, portandosi una mano alla spalla e trasalendo.

«Passa il mio compleanno con me. Domani. È tutto ciò che ti chiedo. Me lo devi, per avermi lasciato come hai fatto.»

«Non ti ho lasciato. Non c'è stato niente fra noi, pazzo fottuto. Non eri il mio ragazzo.»

Bliss la guardò, sbalordito. «Io ero innamorato di te.»

«Innamorato? Abbiamo quasi fatto sesso una notte, quasi, anni e anni fa, e solo perché ero troppo ubriaca per reggermi in piedi. Se fossi stata sobria non mi sarei mai avvicinata a te.»

«Non dire così.»

«Sei davvero patetico.»

«Ho rinunciato a tutto per te», confessò lui a testa bassa, le braccia abbandonate lungo i fianchi. «Ho rinunciato al mio sogno di diventare medico.»

«Oh, poverino. Non saresti mai diventato un medico.» Lei si alzò lentamente, con una smorfia di dolore. «Affronta la realtà, Malcolm: sei un impiegato del cazzo, e sempre lo sarai.»

«No», piagnucolò lui. «Non lasciarmi. Per favore, non farlo.»

Ma lei lo ignorò e, zoppicando per la stanza, si mise in cerca degli stivali e della gonna scamosciata. «E poi questo posto è disgustoso.» Trovò un deodorante nella borsa e lo spruzzò nell'aria. «C'è una puzza nauseante qui dentro.»

Con un singhiozzo, lui si accasciò contro il muro e si raggomitolò in un angolo, la testa fra le mani e il corpo tremante. «Per favore, non lasciarmi.»

«Suvvia.» La voce di Joni si era fatta più dolce. La udì avvicinarsi e vide il piede della ragazza accanto al suo. «Non fare il bambino.»

«Non andartene!» Bliss accarezzò lo stivale scamosciato. «Non andare.»

«Devo andare. Calmati, dai. Possiamo essere amici.»

«No.»

«Malcolm. Su. Ora vado, va bene, Malcolm?»

Stavolta fu più rapido.

Con una mossa, le afferrò il piede e lo sollevò, al di sopra della sua testa. Joni cercò un appiglio, ma le sue mani scivolarono sulle pareti, e lei cadde sul pavimento, agitando le braccia. Rapidamente, Bliss s'inginocchiò, puntandole un gomito allo stomaco. Poi le assestò un secondo colpo, al viso questa volta, facendole uscire il sangue dal naso.

E Joni perse conoscenza.

Jack si fermò davanti alla casa di Susan Lister. Le tende erano tirate e, attaccato al cancello, vi era un messaggio dattilografato inserito in una busta di plastica, l'inchiostro sbavato là dov'era penetrata la rugiada.

AI RAPPRESENTANTI DELLA STAMPA:

MIO FRATELLO E SUA MOGLIE STANNO ATTRAVERSANDO UN PERIODO MOLTO DIFFICILE. VI PREGHIAMO DI RISPETTARE LA PRIVACY DELLA NOSTRA FAMIGLIA E DI NON RENDERE LA SI TUAZIONE ANCORA PIÙ DIFFICILE TEMPESTANDOCI DI DOMANDE. ABBIAMO GIÀ DETTO TUTTO CIÒ CHE INTENDEVAMO DIRE.

GRAZIE.

T. LISTER

Jack infilò le chiavi dell'auto in tasca, girò l'angolo e si fermò sulla soglia del negozio di rigattiere, una mano sullo stipite, l'altra sul campanello.

«Sì?» chiese una voce al citofono. «Chi è?»

«Detective Caffery. Mi chiedevo se potessi concedermi due minuti.» Un attimo di silenzio. La donna non rispose, e lui ripeté: «Sono Jack Caffery…»

«Sì, ho sentito. Aspetta lì. Scendo giù tra un minuto.»

Passò molto tempo prima che lei scendesse, e l'agitazione di Jack aumentava. Ma, proprio quando stava per suonare nuovamente il citofono, udì alcuni passi sulle scale e il catenaccio che si apriva. Lei era scalza e indossava un vestito ampio, color tulipano.

«Posso entrare?»

La ragazza non rispose.

«Rebecca?»

«Sì», sospirò lei. «Entra pure.» Arretrò di un passo nel corridoio per farlo passare. Poi chiuse la porta col chiavistello e indicò le scale. «Ho appena aperto del Fitou. Credo ti piaccia.»

L'appartamento era freddo. Le persiane erano semichiuse e una mosca ronzava pigramente intorno a un ventaglio di pennelli infilati in un recipiente di vetro. «Siediti, vado a prenderlo. Scusami per il disordine», disse lei, prima di scomparire in cucina. Jack gironzolò per lo studio, osservando le pile di disegni e di schizzi sparsi ovunque. Il ritratto incompleto di Joni giaceva ancora sul cavalietto. I capelli erano così biondi da farla sembrare albina.

«Lei non c'è?» chiese Jack.

«È ancora al pub.»

«A che ora pensi che tornerà?» Sentiva l'odore stantio del deodorante di Joni.

«Per chi sei venuto, detective? Per me o per Joni?»

«Per te, naturalmente.»

In cucina lei scoppiò in una risata ironica. «Sì, certo.»

«Sì, certo», ripeté fra sé Jack, tornando in corridoio. Il bagno era proprio di fronte e, accanto a esso, c'era la scala che portava alla camera di Joni. Alla sua destra, la porta della cucina era chiusa, ma udiva Rebecca dall'altra parte che lavava i bicchieri. Andò in bagno e chiuse la porta a chiave dietro di sé.

Faceva caldo, là dentro, e i colori avevano le tipiche tonalità tropicali dei dépliant delle vacanze: asciugamani fucsia e pareti color acquamarina. Alcuni collant neri erano immersi in un catino nella vasca da bagno e sul tappetino vi erano varie impronte di talco. Jack aprì il rubinetto, poi guardò nell'armadietto dei medicinali. Trovò subito ciò che cercava. Estrasse una cartina per sigarette dalla tasca e l'avvolse intorno alle setole di una spazzola per capelli dal manico rosso. Quando la tolse, vi rimasero attaccati quattro o cinque capelli argentei. Ripose quindi la cartina nel piccolo contenitore di cartone, chiuse il rubinetto e tornò nello studio.