«Bene», disse e lanciò un'occhiata al suo orologio. «Sono le dieci e mezzo, Joni. Tornerò a prepararti alle undici. Fino ad allora, rilassati.»
22.45. Le finestre dello studio erano aperte, i lampioni in strada proiettavano una luce rossastra che pareva rubata a un tramonto. Le macchine in transito riversavano musica nelle strade. La notte e il vino avevano addolcito Rebecca, che si era sciolta i capelli. La sua pelle luccicava nella semioscurità. Sedeva di fronte a Jack, senza parlare. Già da tempo la loro conversazione era giunta a un punto morto: non avevano più nulla da dirsi, eccetto ciò che volevano davvero.
Fu Jack a rompere il silenzio. «Devo andare», mormorò. E non si mosse.
Rebecca bevve un sorso di vino, ma non disse nulla.
«Si sta facendo tardi… Devo alzarmi presto domani.» Lasciò la frase in sospeso, in attesa di una risposta. «Allora… vado.»
«Sì», esclamò infine lei, posando il bicchiere. «Sì, certo.»
Scesero le scale, Rebecca per prima. Due gradini più in alto di lei, Jack poteva vedere i segni lasciati nella sua pelle dalle spalline del vestito. Alla porta d'entrata lei si fermò e, mantenendo una certa distanza da lui, posò la mano sul chiavistello, ma non lo aprì.
«Bene…» sussurrò, fissando un bottone della camicia di Jack ed evitando d'incontrare i suoi occhi. «Grazie per il consiglio.»
«Non c'è di che.»
Di nuovo silenzio. Gli occhi di lei rimanevano fissi sui bottoni. D'istinto, Jack sollevò la mano, appoggiandola sul petto. A quel movimento, Becky schiuse la bocca, poi si coprì il viso e si girò.
«Rebecca?»
«Mi dispiace.» La sua voce era smorzata.
«Rebecca?» Delicatamente Jack la prese per le spalle, sopra le spalline, sfiorando i segni che queste avevano impresso sulla pelle calda. «Torniamo di sopra?»
«Sì.» Lei annuì senza guardarlo. «Penso di sì.»
«Allora andiamo.»
Jack fece per voltarla, ma lei emise un gemito e gli afferrò la mano destra, la avvicinò alla bocca e prese a baciarla, affondando lievemente i denti nel palmo, succhiando un dito per volta. Lui rimase immobile a guardarle la nuca, col cuore in tumulto. La ragazza passò le dita sulle sue labbra, sollevò il mento e gli guidò la mano lungo il collo, sul vestito. E, improvvisamente, inaspettatamente, Jack fu colto da un desiderio così forte che non riuscì a trattenersi.
«Oh, Cristo…»
La girò verso di lui e, afferrandola per la parte posteriore delle cosce, la sollevò, facendola poi sedere sul calorifero spento nel corridoio. Quando le alzò il vestito, lei si lasciò sfuggire un gemito, poi, tenendo gli occhi chiusi, si protese verso di lui, tentando di baciarlo. I suoi denti urtarono contro quelli di Jack, e le sue mani armeggiarono per aiutarlo a toglierle gli slip. Non sorrideva, era assolutamente concentrata.
Rispondeva.
I piedi nudi di lei cercarono un appoggio: uno trovò la mountain bike precariamente appoggiata accanto al calorifero e fece pressione sulla ruota. Jack, ben saldo sul pavimento, si aprì i pantaloni. Attraverso la lunetta, i fari delle auto illuminavano a tratti il soffitto e il volto di Rebecca mentre Jack si muoveva dentro di lei. Aveva gli occhi chiusi e, mordendosi le labbra, non lo respingeva, anzi avvicinava i fianchi a quelli di lui, seguendo il suo ritmo. La bicicletta dondolò in avanti e i pedali batterono contro i polpacci di Jack, ma lui non vi prestò attenzione. La sua concentrazione crebbe, la velocità e la tensione aumentarono, finché ogni atomo di energia, di rabbia e di desiderio venne sublimato in quell'atto, sino a fargli dimenticare com'era iniziato.
«No…» disse improvvisamente Rebecca, guardandolo. «No… Non venirmi dentro.»
«Oddio…» esclamò lui e si ritrasse, indietreggiando nell'atrio. Perso ogni controllo, venne sulle sue scarpe e sul pavimento. Per un attimo la guardò, incredulo, poi si portò una mano al viso e si lasciò cadere sull'ultimo gradino, scuotendo la testa, ansimando profondamente. «Mi dispiace… mi dispiace.»
Rebecca scese dal calorifero e si sedette accanto a lui, i capelli sudati appiccicati alla fronte e il petto sussultante. Il vestito, ancora arrotolato sopra la vita, incollato alla pelle, lasciava intravedere l'incavo scuro dell'ombelico.
«Scusami. Non avrei dovuto…» ansimò Jack.
«No… è…» Lei si asciugò la bocca e si voltò a guardarlo, la faccia e il collo arrossati e dolenti. «Davvero… Io… Va tutto bene. Avrei potuto fermarti.»
«Avrei dovuto usare qualcosa. Non mi era mai successo prima. Di solito non…»
Improvvisamente, la ragazza si coprì gli occhi, scosse il capo e cominciò a ridere.
«Che c'è?» domandò Jack, notando solo in quel momento che la gamba gli sanguinava, un lungo rigagnolo scuro e denso sui pantaloni accartocciati alle caviglie. «Cosa c'è di tanto divertente?»
«È questo ciò che intendevi per 'fallimento umano'?» disse lei, continuando a ridere. «È questo che faceva impazzire Veronica?»
«Oh», mormorò lui. «Te l'ho detto… Non era mai accaduto prima d'ora. Davvero.»
«Puoi provarmelo?»
«Sì. Posso provartelo.»
«Cosa… Adesso?»
«Adesso.»
«No, seriamente… proprio ora? Intendo dire, sei sicuro di poterlo fare?»
«Sì…» Lui guardò intorno in cerca di qualcosa con cui pulire il pavimento, le scarpe e la gamba. «Certo che posso. È uno dei miei pezzi forti.»
«Oh.» Rebecca sospirò. Poi sorrise. «Allora potrebbe essere amore.»
Alle undici era pronto.
Joni giaceva immobile nella stanza. Lui entrò – indossando il camice da chirurgo, la mascherina e la cuffia – e pensò che fosse ancora incosciente, ma poi si avvicinò e vide che, con l'occhio sano, lei lo stava fissando. Solo quando le mostrò il bisturi Joni reagì, e prese a dimenarsi sul letto, inarcando la schiena, agitando la testa ed emettendo versi soffocati.
«Calmati», disse lui, posandole una mano sulla spalla e schiacciandola contro il materasso. «Rilassati.»
Joni allontanò di scatto la testa e ringhiò da dietro il bavaglio.
«Puttana», sussurrò Bliss, mettendosi a cavalcioni sopra di lei. «Sta' zitta, ora. Puttana. Sono stato buono con te, ma tu mi provochi.» La spinse nuovamente contro il letto e Joni rimase immobile sotto le sue mani, continuando a osservarlo con l'occhio buono.
«Bene.» Si riappoggiò sui talloni e si asciugò il sudore sul volto. «Ascoltami. Non ho intenzione di ucciderti.» Si chinò su di lei e, ignorando il brivido che attraversò il corpo della ragazza, appoggiò delicatamente il viso contro il suo collo. «Voglio solo che sia come quella notte. Mi capisci?»
Dalla lacrima che dalla guancia di lei scorse alla sua fronte, Bliss comprese che Joni aveva accettato. E infatti smise di dimenarsi. Tuttavia, per maggior sicurezza, le legò il torace al letto, incrociando il nastro adesivo sui fianchi: dalla donna di Greenwich aveva imparato che il corpo umano, anche se incosciente, risponde in modo violento al dolore.
Prese una matita emostatica. «Non ci vorrà molto.»
Con la lingua fra i denti, tracciò con cura un segno poco sopra la vecchia cicatrice, nel punto in cui avrebbe praticato l'incisione. Non appena lo vide sputare sul bisturi e pulirlo sul camice, la ragazza prese ad ansimare, disperata.
«Non c'è molto da tagliare qui sotto, Joni», borbottò lui con una smorfia. La carne morbida cedette sotto la lama; si tese, poi si rilasciò e si spaccò, come un frutto. Dal bavaglio di nastro isolante provenne un lamento smorzato. Il bacino della ragazza si ritrasse disperatamente contro il materasso. Tra le lentiggini sparse sul ventre vi era solo qualche schizzo di sangue, niente di più. Bliss si chinò per guardare dentro la nuova ferita. E lì, oltre il grasso giallo sanguinante, scorse le protesi che sembravano guardarlo dal loro rivestimento di carne.
«Sei fortunata», mormorò allora, dando una pacca sul ginocchio di Joni. «Sono state applicate sopra il muscolo. Porta pazienza solo un momento…» Si morse il labbro e lentamente inserì le dita nella ferita, tastando all'interno del seno.