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«Certo che no. Potresti passarci sopra con un carro armato. Un bel po’ fuori mercato qui da noi, no? È fatta per i diplomatici in Medio Oriente, i mercanti d’armi e i narcotrafficanti, soprattutto».

«Secondo te, lei è...?», domandò il più basso sottovoce.

Abbassai la testa, le guance in fiamme.

L’altro abbozzò una risposta. «Forse. Non riesco a immaginare che bisogno ci sia di vetri antimissile e due tonnellate di blindatura da queste parti. Probabilmente sta andando in qualche posto più pericoloso».

Blindatura. Due tonnellate di blindatura. E i vetri antimissile? Bello. Che fine avevano fatto i cari vecchi vetri antiproiettile?

Be’, tutto questo aveva senso, se possedevi un perverso senso dell’umorismo.

Non è che non mi aspettassi che Edward avrebbe sfruttato il patto a suo vantaggio e colto al volo l’occasione di darmi molto più di quanto avrebbe ricevuto. Gli avevo concesso di sostituire il pick-up se mai ce ne fosse stato bisogno, ovviamente senza prevedere che quel momento sarebbe arrivato quasi subito. Quando ero stata costretta ad ammettere che il pick-up era diventato poco più che la natura morta di un classico Chevy parcheggiato sul marciapiede, sapevo che la sua idea di sostituzione mi avrebbe creato un certo imbarazzo. E trasformata nell’oggetto di sguardi e sussurri. Ci avevo azzeccato. Ma nemmeno nelle mie previsioni più nere avrei pensato di ricevere due auto.

Quella del "prima" e quella del "dopo", aveva spiegato vedendomi imbufalita.

Questa era l’auto del "prima". Mi aveva detto che era in prestito e che aveva promesso di restituirla dopo il matrimonio. Non ne avevo capito il senso. Fino a quel momento.

Ah ah. Dal momento che ero così fragile e umana, così portata a cacciarmi nei guai, così vittima della mia pericolosa sfortuna, a quanto pareva mi serviva un’auto a prova di carro armato. Divertente. Chissà che belle risate si erano fatti alle mie spalle, lui e i suoi fratelli.

Oppure, forse, sussurrò una vocina nella mia testa, non è uno scherzo, sciocca. Forse è davvero preoccupato per te. Non sarebbe la prima volta che esagera nel tentativo di proteggerti.

Mah.

L’auto del "dopo" non l’avevo ancora vista. Era nascosta sotto un telo, nell’angolo più buio del garage di casa Cullen. Magari tanti altri avrebbero cercato di sbirciare, io invece non ne volevo proprio sapere.

Probabilmente non era blindata, perché non ne avrei avuto bisogno dopo la luna di miele. L’essere praticamente indistruttibile era uno dei tanti bonus che non vedevo l’ora di ricevere. La parte migliore del diventare una Cullen non erano né le auto di lusso né le carte di credito appariscenti.

«Ehi», disse lo spilungone tenendo le mani a coppa sul vetro per cercare di sbirciare all’interno. «Abbiamo finito. Molte grazie!».

«Prego», risposi e la tensione tornò quando accesi il motore e schiacciai con grande delicatezza l’acceleratore.

Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo a ignorare i fogli sbiaditi dalla pioggia. Incollati a un palo del telefono o attaccati a un cartello stradale, ogni volta erano uno schiaffo. Un meritatissimo schiaffo in faccia. La mia mente fu risucchiata dal pensiero interrotto poco prima con tanta prontezza. Non potevo evitarlo su quella strada. Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari.

Il mio migliore amico. Il mio Jacob.

Non era stato il padre di Jacob a inventarsi i volantini con la scritta «RAGAZZO SCOMPARSO». Era stato Charlie, mio padre, a stamparli e a diffonderli in tutta la città. E non soltanto a Forks, ma anche a Port Angeles, Sequim, Hoquiam, Aberdeen e in ogni altra cittadina della Penisola Olimpica. Aveva anche fatto in modo che la foto comparisse nella bacheca di tutte le stazioni di polizia dello Stato di Washington. Nella sua, un intero pannello di sughero era stato dedicato alla ricerca di Jacob. Pannello quasi totalmente vuoto e fonte di grande delusione e frustrazione.

A deludere papà non era tanto l’assenza di risposte. La delusione più grande veniva da Billy, il padre di Jacob nonché il miglior amico di Charlie.

Il fatto era che Billy non s’impegnava molto nella ricerca del "fuggitivo" sedicenne e si rifiutava di affiggere i volantini a La Push, la riserva sulla costa in cui Jacob era cresciuto. Billy sembrava rassegnato alla scomparsa del figlio, come se non potesse farci nulla, e diceva: «Ormai Jacob è un adulto. Tornerà a casa se ne ha voglia».

La frustrazione, invece, era dovuta a me perché stavo dalla parte di Billy.

Anch’io mi ero rifiutata di affiggere i volantini. Sia io che Billy sapevamo dov’era Jacob, almeno a grandi linee, e sapevamo perché nessuno avesse visto il "ragazzo".

I manifestini mi provocarono il solito, pesante groppo in gola, le solite lacrime pungenti agli occhi, e fui lieta che Edward, quel sabato, fosse uscito a caccia. Se avesse visto come reagivo, avrei trascinato giù anche lui.

Ovviamente, il sabato aveva le sue controindicazioni. Mentre svoltavo lentamente e con cautela nella via, vidi l’auto della polizia di mio padre parcheggiata sul vialetto di casa. Per l’ennesima volta aveva saltato la battuta di pesca. Aveva ancora il broncio per via del matrimonio.

Perciò, era impossibile usare il telefono di casa. Ma dovevo chiamare.

Parcheggiai sul marciapiede, dietro la scultura del Chevy, e dal portaoggetti sfilai il cellulare che Edward mi aveva lasciato per le emergenze. Composi il numero e lasciai squillare il telefono, con il dito pronto a chiudere la comunicazione. Per non correre rischi.

«Pronto?», rispose Seth Clearwater e io tirai un sospiro di sollievo. Ero tanto, troppo codarda per parlare con Leah, sua sorella maggiore. Quando si parlava di lei, l’espressione «mi avrebbe staccato la testa a morsi» non era esattamente una metafora.

«Ciao, Seth, sono Bella».

«Ehi, ciao, Bella! Come stai?».

Soffoco. Avevo un disperato bisogno di conforto. «Bene».

«Vuoi un aggiornamento?».

«Mi leggi nel pensiero».

«Niente affatto, non sono mica Alice. È solo che sei prevedibile», scherzò.

Nel branco dei Quileute di La Push, Seth era l’unico che non si facesse problemi a chiamare per nome i Cullen, oltre a scherzare su argomenti come la mia quasi onnisciente futura cognata.

«Lo so». Esitai qualche istante. «Come sta?».

Seth sospirò. «Come al solito. Non spiccica parola, ma senz’altro ci ascolta. Cerca di non pensare da "umano", capisci in che senso? Segue solo l’istinto».

«Sai dov’è adesso?».

«Da qualche parte nel Canada del Nord. Non so in quale provincia. Non bada molto ai confini».

«Ha dato qualche segno di...».

«Non è intenzionato a tornare a casa, Bella. Mi dispiace».

Deglutii. «Tranquillo, Seth. Lo sapevo già. Ma non riesco a non sperarci».

«Già, è così per tutti noi».

«Grazie che mi dai notizie, Seth. Immagino che gli altri te lo stiano facendo pesare».

«Non sono certo tuoi fan accaniti», confermò lui allegro. «Reazione idiota, direi. Jacob ha fatto le sue scelte, tu le tue. Neanche Jake approva il loro atteggiamento. Ovvio, sapere che chiedi di lui non lo fa saltare di gioia».

Restai a bocca aperta. «Credevo che non vi parlasse».

«Per quanto si sforzi, non può nasconderci tutto».

Quindi Jacob sapeva che ero preoccupata. Chissà se era un bene o un male. Se non altro sapeva che non ero sparita dall’orizzonte dimenticandolo del tutto. Forse mi aveva ritenuta capace di farlo.

«Immagino che ci vedremo al... matrimonio», dissi cacciando con sforzo quella parola fuori dai denti.

«Sì, ci verrò con la mamma. È fico che ci abbiate invitati».

Sorrisi del suo tono entusiasta. Invitare i Clearwater era stata un’idea di Edward ed ero lieta che ci avesse pensato. La presenza di Seth mi faceva piacere: era pur sempre un tenue legame con il mio testimone assente. «Non sarebbe lo stesso senza di voi».