«Ci sto pensando».
Mi sedetti, pronta a esaminarmi. Se non altro, non mi pareva ci fossero altre piume. Ma non appena mi alzai fui colpita da una strana ondata di vertigini. Vacillai e ricaddi fra i cuscini.
«Ehi... che capogiro».
Mi sentii abbracciare all’istante. «Hai dormito tanto. Dodici ore».
«Dodici?». Strano.
Mi diedi una controllata mentre parlavo, cercando di non farmi notare. Sembravo a posto. I lividi sulle braccia erano ancora quelli della settimana prima, ormai giallastri. Provai con una stiracchiata. Anche quella andò bene. Anzi, più che bene.
«Inventario completo?».
Annuii imbarazzata. «A quanto pare i cuscini sono sopravvissuti».
«Purtroppo non posso dire altrettanto della tua, ehm, camicia da notte». Indicò i piedi del letto, dove mescolati alle lenzuola di seta giacevano brandelli di pizzo nero.
«Peccato», dissi, «mi piaceva».
«Anche a me».
«Altre vittime?», domandai timida.
«Dovrò comprare un telaio nuovo per il letto di Esme», confessò, gettando uno sguardo alle proprie spalle. Lo seguii e restai sorpresa vedendo il lato sinistro della testiera ridotto a pezzi.
«Mmm». Corrugai la fronte. «Secondo te, me ne sarei dovuta accorgere?».
«A quanto pare diventi straordinariamente sbadata, quando la tua attenzione gravita altrove».
«Ero un po’ distratta», confessai, rossa di vergogna.
Sfiorò la mia guancia in fiamme e sospirò. «Questo mi mancherà sul serio».
Osservai il suo viso, in cerca dei segni della rabbia o del rimorso che temevo. Mi restituì uno sguardo pacato, l’espressione calma ma illeggibile.
«Tu come stai?».
Rise.
«Che c’è?», domandai.
«Hai l’aria di una che si sente in colpa dopo aver commesso un crimine».
«Sì, mi sento in colpa», mormorai.
«Be’, hai sedotto un marito consenziente. Non è un reato capitale».
Sembrava volermi stuzzicare.
Le mie guance si scaldarono. «La parola sedotto implica un certo grado di premeditazione».
«Sì, forse è la parola sbagliata».
«Non sei arrabbiato?».
Abbozzò un sorriso. «Non sono arrabbiato».
«Perché no?».
«Be’...». Fece una pausa. «Per prima cosa non ti ho fatto del male. Stavolta è stato più semplice controllarmi, incanalare gli eccessi», il suo sguardo balzò di nuovo ai danni sulla testiera, «forse perché avevo un’idea più precisa di cosa aspettarmi».
Un sorriso speranzoso iniziò ad aprirsi sul mio viso. «Te l’avevo detto che era tutta questione di esercizio».
Alzò gli occhi al cielo.
Il mio stomaco brontolò e lui rise. «È ora di colazione per gli umani?», domandò.
«Grazie», dissi e saltai giù dal letto. Troppo in fretta, però, e traballai come un’ubriaca per ritrovare l’equilibrio. Edward mi fermò prima che mi schiantassi contro l’armadio.
«Stai bene?».
«Se nella prossima vita non avrò un senso dell’equilibrio migliore, voglio essere rimborsata».
Cucinai io qualche uovo fritto, avevo troppa fame per pensare a ricette più elaborate. Impaziente, le rovesciai sul piatto dopo pochi minuti.
«Da quando ti piacciono le uova all’occhio di bue?», domandò Edward.
«Da adesso».
«Sai quante ne hai buttate giù questa settimana?». Sfilò il bidone della spazzatura da sotto il lavandino: era pieno di scatole da sei, vuote.
«Strano», risposi dopo aver deglutito un boccone gigantesco. «Questo posto mi sta stravolgendo l’appetito». E i sogni, oltre al mio già precario equilibrio. «Eppure mi piace. Però dovremo andarcene presto se vogliamo iniziare puntuali a Dartmouth, vero? Ehi, mi sa che dovremo trovarci anche una casa in cui stare e quello che ci occorrerà».
Si sedette accanto a me. «Puoi anche smettere di fingere che il college ti interessi, ora che hai ottenuto ciò che volevi. Non abbiamo stretto nessun patto, è tutto alla luce del sole».
Sbuffai. «Non ho fatto nessuna finta, Edward. Io non passo il tempo a tramare, come fa qualcun altro. Cosa possiamo fare oggi per stancare Bella?», dissi imitando malamente la sua voce. Lui rise, sfacciato. «Davvero vorrei, passare ancora un po’ di tempo da umana». Mi sporsi ad accarezzare il suo petto nudo. «Non ne ho ancora abbastanza».
Mi lanciò un’occhiata dubbiosa. «Di questo?», domandò, afferrando la mano che scendeva lungo il suo ventre. «Il sesso è sempre stata la chiave di tutto?». Alzò gli occhi al cielo. «Chissà perché non ci ho pensato prima», mormorò sarcastico. «Mi sarei risparmiato un sacco di discussioni».
Scoppiai a ridere. «Forse sì».
«Sei così umana», ripeté.
«Lo so».
L’ombra di un sorriso sfiorò le sue labbra. «Andiamo a Dartmouth? Sul serio?».
«Probabilmente non supererò il primo semestre».
«Ti aiuterò io». Il sorriso si aprì. «Il college ti piacerà».
«Pensi che riusciremo a trovare ancora un appartamento?».
Fece una smorfia, con aria colpevole. «Be’, abbiamo già una specie di casa laggiù. Sai com’è».
«Hai comprato casa?».
«Gli immobili sono un buon investimento».
Alzai un sopracciglio senza commentare. «Perciò, siamo pronti».
«Devo capire se possiamo tenerci ancora un po’ la tua macchina del "prima"...».
«Eh sì, guai a me se non ci sarà nulla a proteggermi dai carri armati».
Sorrise.
«Quanto possiamo restare ancora?», domandai.
«Abbiamo tempo. Qualche altra settimana, se vuoi. E possiamo passare a trovare Charlie prima di trasferirci nel New Hampshire. A Natale potremmo andare da Renée...».
Le sue parole descrissero un futuro immediato felicissimo, privo di dolore per tutti. Il cassetto-Jacob, tutt’altro che dimenticato, sussultò e corressi i miei pensieri: per quasi tutti.
La situazione non era per nulla facile. Ora che avevo scoperto le profonde gioie di un’esistenza umana, ero tentata di lasciar cadere i miei piani. Diciotto o diciannove anni, diciannove o venti... importava qualcosa? Non sarei cambiata granché nel giro di un anno. E restare umana accanto a Edward... il dilemma si faceva ogni giorno più spinoso.
«Sì, qualche settimana», dissi. E poi, visto che il tempo non sembrava mai abbastanza, aggiunsi: «Ecco, pensavo... hai presente quel che dicevo poco fa a proposito dell’esercizio?».
Rise. «Resta lì e non perdere il filo. Ho sentito una barca. Devono essere i domestici».
Non voleva interrompere il discorso. Quindi la sua intenzione non era di proibirmi un po’ di allenamento? Sorrisi.
«Aspetta che spieghi a Gustavo il casino nella stanza bianca, poi possiamo uscire. C’è un posto nella giungla, verso sud...».
«Non voglio uscire. Oggi non mi va di scarpinare sull’isola. Voglio restare qui a guardare un film».
Increspò le labbra, cercando di non ridere del mio tono scontento. «Va bene, come vuoi. Perché non ne scegli uno mentre vado ad aprire?».
«Non ho sentito bussare».
Reclinò la testa di lato, in ascolto. Mezzo secondo dopo udimmo un timido colpetto alla porta. Edward sorrise e si diresse verso il corridoio.
Mi avvicinai alle mensole sotto la grande TV e iniziai a scorrere i titoli. La scelta si presentava difficile. C’erano più DVD lì che in un videonoleggio.
Sentii la voce bassa e vellutata di Edward avvicinarsi dal corridoio, mentre parlava senza esitazioni in quello che sembrava perfetto portoghese. Un’altra voce più rauca, umana, rispondeva nella stessa lingua.
Edward li guidò nella stanza, indicando verso la cucina quando vi passò davanti. Accanto a lui, i due brasiliani apparivano incredibilmente bassi e scuri: un uomo rotondetto e una donna magra, con i volti segnati dalle rughe. Edward mi presentò con un sorriso orgoglioso e riconobbi il mio nome mescolato a un flusso di parole sconosciute. Arrossii appena ripensando al disastro di piume nella stanza bianca in cui stavano per imbattersi. L’ometto mi sorrise educato.