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«Salutami Edward, okay?».

«Certamente».

Scossi la testa. L’amicizia nata fra Edward e Seth continuava a lasciarmi senza parole. Però era la dimostrazione che le cose non sarebbero dovute andare così. Che i vampiri e i licantropi potevano andare d’accordo se decidevano di farlo, e tanti saluti.

Non tutti gradivano l’idea.

«Ah», esclamò Seth salendo di un’ottava con la voce. «Ehm, è tornata Leah».

«Oh! Ciao!».

Cadde la linea. Lasciai il telefono sul sedile e mi preparai mentalmente a entrare in casa, dove mi aspettava Charlie.

In quel periodo, il mio povero papà era alle prese con un sacco di problemi. Jacob il fuggitivo era soltanto uno dei fardelli che rischiavano di spezzargli la schiena. Era quasi altrettanto preoccupato per me, la figlia appena maggiorenne che nel giro di pochi giorni sarebbe diventata "signora".

M’incamminai lenta sotto la pioggia leggera, persa nel ricordo della sera in cui gliel’avevamo detto.

Quando il rumore dell’auto della polizia aveva annunciato il ritorno di Charlie, l’anello che portavo al dito aveva iniziato improvvisamente a pesare cento chili. Avrei voluto infilare la mano sinistra nella tasca, o sedermici sopra, ma la stretta forte e fredda di Edward la teneva fra di noi in bella vista.

«Smettila di agitarti, Bella. Per favore, cerca di ricordare che non sei qui per confessare un omicidio».

«Facile dirlo, per te».

Sentii il suono minaccioso degli stivali di mio padre sul marciapiede. La chiave sferragliò nella porta già aperta. Il suo rumore mi ricordò la scena dei film horror in cui la vittima si accorge di aver dimenticato di chiudere la serratura.

«Calmati, Bella», sussurrò Edward, intento ad ascoltare i battiti accelerati del mio cuore.

La porta si chiuse sbattendo e io sobbalzai come per una scossa elettrica.

«Ciao, Charlie», salutò Edward, del tutto a proprio agio.

«No!», protestai a mezza voce.

«Che c’è?», sussurrò lui.

«Aspetta almeno che appenda la pistola!».

Edward ridacchiò e si passò una mano nella massa arruffata dei capelli color bronzo.

Charlie sbucò da dietro l’angolo, ancora in uniforme, ancora armato, e cercò di non fare smorfie quando ci scorse seduti l’uno accanto all’altra sul divanetto. Da qualche tempo si era messo d’impegno a farsi piacere Edward. Ovviamente, quanto gli avremmo rivelato di lì a poco stava per cancellare di colpo ogni suo sforzo.

«Ciao, ragazzi. Come va?».

«Abbiamo una cosa da dirti», rispose Edward sereno. «Buone notizie».

In un secondo l’espressione di Charlie passò dalla cordialità artificiosa al sospetto più fosco.

«Buone notizie?», ringhiò guardandomi dritto negli occhi.

«Siediti, papà».

Alzò un sopracciglio, mi fissò per cinque secondi, si avvicinò a grandi passi alla poltrona reclinabile e si appollaiò sul bordo, la schiena dritta come un fuso.

«Non scaldarti, papà», dissi dopo un momento di silenzio sovraccarico. «È tutto okay».

Edward fece una smorfia, un’evidente obiezione alla parola «okay». Probabilmente lui avrebbe utilizzato qualcosa di più simile a "meraviglioso", "perfetto" o "magnifico".

«Certo che sì, Bella, certo che sì. Se tutto va così alla grande, perché sei sudata fradicia?».

«Non sto sudando», mentii.

Mi sottrassi al suo sguardo torvo stringendomi contro Edward e istintivamente mi passai il dorso della mano destra sulla fronte per cancellare le prove.

«Sei incinta!», esplose Charlie. «Sei incinta, vero?».

Benché la domanda fosse chiaramente indirizzata a me, si rivolse a Edward e potrei giurare di aver visto la sua mano scattare verso la pistola.

«No! Certo che no!», avrei voluto dare una gomitata nelle costole a Edward, ma sapevo che la mossa mi sarebbe costata un livido. Gliel’avevo detto che tutti sarebbero subito saltati a una conclusione del genere! Quale altra ragione poteva spingere due diciottenni sani di mente a sposarsi? (La sua risposta mi lasciò basita: «L’amore». Bravo).

Lo sguardo di Charlie si fece meno torvo. Di solito mi si leggeva in faccia se dicevo la verità e in quel caso lui si fidò. «Ah. Scusa».

«Scuse accettate».

Calò un lungo silenzio e a un certo punto mi resi conto che entrambi si aspettavano che io dicessi qualcosa. In preda al panico alzai lo sguardo verso Edward. Non riuscivo proprio a tirare fuori le parole.

Lui sorrise, drizzò le spalle e si rivolse a mio padre.

«Charlie, mi rendo conto di aver affrontato la questione nel modo sbagliato. Secondo la tradizione, avrei dovuto chiederlo a te per primo. Non voglio mancarti di rispetto, ma dal momento che Bella ha già detto di sì non voglio sminuire il valore della sua scelta, e anziché chiederti la sua mano, chiedo la tua benedizione. Ci sposiamo, Charlie. La amo più di ogni cosa al mondo, più della mia stessa vita, e, grazie a chissà quale miracolo, lei mi ricambia in tutto. Ci darai la tua benedizione?».

Sembrava così sereno, così calmo. Per un breve istante, mentre ascoltavo la sicurezza assoluta che trapelava dalla sua voce, ebbi un’eccezionale intuizione e in un lampo capii come il mondo apparisse ai suoi occhi. Per lo spazio di un battito, la notizia assunse un senso pieno.

Ma poi mi accorsi dell’espressione sul viso di Charlie, del suo sguardo fisso sull’anello.

Trattenni il fiato mentre la sua faccia cambiava colore, da rosa a rosso, da rosso a viola, da viola a blu. Feci per alzarmi, senza un’idea precisa in testa — forse volevo praticare la manovra di Heimlich per accertarmi che non stesse soffocando -, ma Edward mi strinse la mano e, senza farsi sentire da Charlie, mormorò: «Aspetta un minuto».

Il silenzio che seguì fu molto più lungo. Poi, a poco a poco, una sfumatura dopo l’altra, la carnagione di Charlie tornò normale. Arricciò le labbra e aggrottò le sopracciglia: riconobbi la sua espressione di quand’era "assorto nei pensieri". Ci studiò per qualche istante interminabile, mentre sentivo al mio fianco che Edward si rilassava.

«Tutto sommato non sono così sorpreso», brontolò Charlie. «Sapevo che prima o poi avrei dovuto fare i conti con qualcosa del genere».

Ripresi fiato.

«Siete sicuri?», domandò lanciandomi un’occhiataccia.

«Di Edward sono sicura al cento per cento», risposi senza esitare.

«Ma perché sposarsi? Che fretta avete?». Mi rivolse l’ennesimo sguardo sospettoso.

La fretta nasceva dal fatto che, uno schifo di giorno dopo l’altro, mi stavo avvicinando al mio diciannovesimo compleanno, mentre Edward restava sospeso nella sua perfezione di diciassettenne, come ormai accadeva da più di novant’anni. Nel mio modo di vedere le cose, ciò non portava per forza al matrimonio, ma sposarci era indispensabile a causa del fragile e cervellotico compromesso che io ed Edward avevamo trovato pur di giungere a quel punto: la mia prossima trasformazione da mortale a immortale.

Ma non era proprio il caso di raccontarlo a Charlie.

«Andremo a Dartmouth insieme quest’autunno, Charlie», puntualizzò Edward. «Ecco, ci terrei a fare le cose per bene. Fa parte della mia educazione». Si strinse nelle spalle.

Non stava esagerando: la moralità vecchio stampo andava forte durante la prima guerra mondiale.

Charlie storse la bocca. Cercava l’appiglio giusto per mettersi a discutere. Ma cosa poteva dire? Preferisco che prima viviate nel peccato? Era un padre: aveva le mani legate.

«Sapevo che sarebbe successo», mormorò fra sé, accigliato. Poi, all’improvviso, tornò perfettamente serio e composto.

«Papà?», domandai ansiosa. Diedi un’occhiata a Edward, ma non riuscii a leggere la sua espressione, concentrato com’era su mio padre.

«Ah!», esplose Charlie. Saltai sulla sedia. «Ah, ah, ah!».

Lo osservai incredula mentre si piegava in due per le risate, tanto da tremare dalla testa ai piedi.

Guardai Edward per una spiegazione, ma serrava le labbra come a trattenere una risata.