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Retro me, Satanas!

Ecco il fuoco: su, Faust, accendilo.

Buone nuove dal grande Lucifero.

Ora Chalk si mosse. Girò nella sua poltrona, rompendo la stasi, sbattendo a ripetizione sul piano della scrivania le braccia carnose. Era inzuppato del sangue dell’Albatro. Ebbe un fremito, uno scatto, un altro fremito. Il grido che gli uscì dalle labbra era solo un sottile e fioco lamento, emesso da un gozzo spalancato. Ora si irrigidiva, ora era scosso dai ritmi mortali…

Poi si afflosciò.

I globi degli occhi si rovesciarono. Le labbra ricaddero. Le spalle massicce cascarono. Le guance si ammosciarono.

Consummatum est; il conto è chiuso.

Le tre persone erano immote: quelle che avevano scagliato le loro anime, e quella che le aveva ricevute. Una delle tre non si sarebbe mossa mai più.

Burris si riprese per primo. Anche il respirare gli costava uno sforzo. Fu un compito colossale dare forza alle labbra e alla lingua. Egli girò su se stesso, riprendendo coscienza delle proprie membra, e posò le mani su Lona. Lei era di un pallore di morte, impietrita. Quando egli la toccò, parve che le forze le tornassero rapidamente.

— Non possiamo più fermarci qui — disse lui con dolcezza.

Se ne andarono, sentendosi vecchissimi, ma tornando giovani a mano a mano che scendevano i piuoli di cristallo. Ritrovavano la vitalità. Ci sarebbero voluti parecchi giorni prima che si rifornissero pienamente; ma almeno non ci sarebbero state altre sottrazioni.

Uscirono dall’edificio senza che nessuno li fermasse.

Era scesa la notte. L’inverno era finito, e sulla città si stendeva la nebbiolina grigia primaverile. Una lieve vena di gelo indugiava ancora nell’aria; ma non rabbrividirono, né l’uno né l’altra, nel freddo.

— Non c’è posto per noi in questo mondo — disse Burris.

— Cercherà solo di divorarci. Come ha tentato di fare lui.

— Lui, lo abbiamo sconfitto. Ma tutto un mondo… non possiamo.

— Dove andremo?

Burris alzò gli occhi. — Vieni con me a Manipol. Faremo visita ai demoni, senza cerimonie.

— Dici sul serio.

— Sì. Ci vieni?

— Sì.

Si diressero verso la macchina.

— Come ti senti? — le chiese.

— Molto stanca. Così stanca che riesco appena a muovermi. Ma mi sento viva. Più viva, a ogni passo. Per la prima volta, Minner, mi sento realmente viva.

— Anch’io.

— Il tuo corpo, ti fa male?

— Amo il mio corpo — egli disse.

— Nonostante la sofferenza?

— A causa della sofferenza. Dimostra che vivo, che sento. — Si volse verso di lei e le prese il cactus dalle mani. Alla luce stellare, che pioveva attraverso uno spiraglio delle nubi, le spine baluginavano.

Egli staccò dalla pianta un piccolo pezzo e lo premette sulla parte carnosa della mano di Lona. Le spine affondarono. Lei vacillò appena un attimo. Apparvero goccioline minuscole di sangue. Lei tolse a sua volta un pezzetto dalla pianta e glielo premette sulla pelle. Era una pelle impervia, difficile; ma alla fine le spine sottili penetrarono. Egli sorrise nel veder scorrere un po’ di sangue. Si portò alle labbra la mano ferita di Lona.

— Sanguiniamo — disse lei — sentiamo. Viviamo.

— La sofferenza è una grande maestra — disse Burris, e affrettarono il passo.

FINE