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Come al solito, nel vestibolo del Portico era riunita una quantità di ragazzi. Alcuni erano in compagnia di ragazze. Lona le osservò timidamente. L’inverno non giungeva in questo vestibolo. Le ragazze si esibivano orgogliosamente. Quella si era rasata il cranio per sfoggiare la bella struttura ossea. Una rossa esponeva voluttuosamente la sua avanzata gravidanza, sottobraccio a due giovanotti aitanti, e rideva dicendo enormi oscenità.

Lona la considerò di profilo. Il bambino era stato certo concepito alla vecchia maniera. Un congiungimento, un brivido e si è fatto un bambino. Un bambino. Forse due. Lona raddrizzò le spalle e riempì d’aria i polmoni, per liberarsi dalla stretta alla gola. Così facendo sollevò in fuori il petto, e un po’ di colore salì alle sue guance angolose.

— Vai al Portico? Vieni con me.

— Ehi, passerotto! Cinguettiamo un poco?

— Bisogno d’un amico, amica?

Molinelli di parole. Inviti in un ronzio profondo. Ma non per lei. Mai per lei.

Io sono una madre.

Io sono la madre.

«Queste uova fertilizzate furono poi collocate in un ambiente consistente per tre parti di soluzione di Locke modificata, e per una parte di un 2,9 per cento di citrato di sodio bi-idrato e di 25 milligrammi di globulina gamma bovina (BGG, Armour) per millimetro della soluzione di Locke e citrato. Al liquido furono addizionate penicillina (100 unità/ml) e streptomicina (50 microgrammi/ml). Viscosità a 22° C: 1,1591 centipoise, con pH 7,2. Per la micromanipolazione, le uova furono tenute in una goccia della soluzione di Locke-globulina-citrato (GCL) coperta con olio minerale in un pozzetto di vaselina su un vetrino da microscopio.»

Ci fu una piccola sorpresa, questa sera, per Lona. Uno di coloro che indugiavano nel vestibolo si avvicinò a lei. Ubriaco? In tale stato di privazione sessuale da trovarla attraente? Mosso a pietà per una derelitta? Oppure sapeva chi lei fosse e desiderava partecipare alla sua gloria? Questa era l’ipotesi meno probabile. Costui non “sapeva”, né “desiderava”: non c’era gloria di sorta.

Non era bello, ma neanche troppo repellente. Di statura media. Capelli neri, lisciati in avanti quasi fin sulle sopracciglia; queste ultime lievemente distorte chirurgicamente a formare l’arco scettico di una V rovesciata; occhi grigi, brillanti di piatta furbizia; mento debole, naso prominente. Età: circa diciannove anni. Carnagione cerea segnata da striature sottocutanee, sensibili al sole, che nel meriggio dovevano splendere di colori. Sembrava affamato. Nell’alito, un miscuglio di vino a poco prezzo, di pan speziato, con un sospettò (per esibizionismo!) di rum filtrato.

— Ciao, bellezza, Appaiamoci. Sono Tom Piper, figlio di Tom Piper. E tu?

— No, per favore — mormorò Lona. E cercò di andarsene. Egli la bloccò.

— Già appaiata? Qualcuno ti aspetta dentro?

— No.

— E allora, perché non con me? C’è di peggio.

— Lasciami stare. — In un fioco piagnucolio.

Egli ghignò. Le ficcò gli occhi negli occhi. — Astronauta — disse. — Appena rientrato dai mondi di fuori. Ci metteremo a un tavolino e ti dirò tutto in proposito. Non devi respingere un astronauta.

Lona aggrottò la fronte. Astronauta? Mondi di fuori? Saturno che vortica dentro i suoi anelli, soli verdi di là dalla notte, esseri pallidi dalle molte braccia? Non era un astronauta. Lo spazio lascia il segno sull’anima. Il figlio di Tom Piper non lo aveva. Persino Lona poteva accorgersene. Persino Lona.

— Non sei astronauta — disse.

— Invece sì. Ti dirò le stelle. Ophiucus. Rigel. Aldebaran. Ci sono stato. Su, fiore! Su, vieni con Tom.

Mentiva. Si faceva bello con le penne del pavone. Lona rabbrividì. Vedeva, oltre quella spalla pesante, le luci del Portico. Egli si chinò avanti, vicinissimo. La sua mano le scese, insinuante, sulle anche, sul fianco magro.

— Chi può mai dire — le bisbigliò, rauco. — Chissà come può finire la serata. Forse ti farò un figlio. Scommetto che ti piacerebbe. Hai mai avuto un bambino?

Le unghie di Lona gli graffiarono la guancia. Egli barcollò indietro, sorpreso, insanguinato, e per un momento le sue fasce ornamentali sottocutanee si accesero di vivo colore persino alla luce artificiale. Lo sguardo divenne feroce. Lona, girando su se stessa, lo schivò, e sparì nella ressa che ingombrava il vestibolo.

Facendosi largo con i gomiti, riuscì a entrare nel Portico.

Tom, Tom, figlio di Piper, ti farà un bel bambino come ridere…

«Trecentouno uova, appena fertilizzate, vennero conservate nei preparati, e ciascuna fu sottoposta a uno dei seguenti trattamenti sperimentali: (a) né puntura di pipetta né iniezione; (b) puntura dell’uovo ma non iniezione; (c) iniezione di…»

Il Portico scintillava. C’erano tutti i piaceri a buon mercato, riuniti sotto un solo tetto vetrato. Nel passare il cancelletto, Lona premette il pollice sul pulsante di esazione, registrando la propria presenza, così che il prezzo di ingresso le fosse addebitato. Non era caro. Comunque il denaro non le mancava, no: avevano provveduto a non farglielo mancare.

Piantata sulle gambe alzò la testa, facendo scorrere lo sguardo, una galleria dopo l’altra, fino al tetto, a un’altezza di sessanta metri. La neve, lassù, cadeva, ma non si posava. Potenti soffiatori impedivano che toccasse il tetto, e i fiocchi di neve cadevano sul marciapiede riscaldato, sciogliendosi.

Vide le gallerie dove si poteva praticare qualsiasi gioco, senza limite di puntate. Generalmente erano modeste. Quello era un locale per giovani, per sbollettati. Per bacati. Ma, volendo, si poteva perdere forte, e a qualcuno era successo. Lì c’erano ruote che giravano, lampeggianti, scatti di pulsanti. Lona non capiva il gioco d’azzardo.

Più su, in un labirinto di corridoi, erano in vendita i piaceri della carne. Donne per gli uomini, uomini per le donne, ragazzi per le ragazze, ragazze per i ragazzi, e ogni altra concepibile combinazione. Perché no. L’essere umano era libero di disporre della propria persona, in qualsiasi modo che non recasse diretto pregiudizio ad altri. Chi vendeva non era costretto a vendere. Poteva metter bottega, darsi al commercio… Lona non andò tra gli stand del piacere.

Qui, al primo piano del Portico, c’erano gli stalli dei mercanti di paccottiglia. Una manciata di monete poteva comperare una sporta di bagattelle. Forse un cordoncino di luce viva per rischiarare i giorni grigi? O un animaletto domestico venuto (dicevano) da un altro pianeta, benché in realtà quei rospi dagli occhi come gioielli uscissero da colture dei laboratori brasiliani? Forse una scatola da poesia, per cullarti e farti prendere sonno? Fotografie di celebrità, abilmente congegnate, che sorridevano e parlavano? Lona girellava, sgranava gli occhi. Non toccava niente, non comperava niente.

«Per sperimentare se le uova erano vitali furono trapiantate in riceventi albine inincrociate BALB/c o Cal A, che erano sotto anestesia. Le riceventi erano state indotte, con iniezioni di ormoni, a ovulare simultaneamente con le donatrici aguti C3H ed erano state accoppiate con maschi fecondi del loro stesso ceppo albino.»

Un giorno i miei bambini verranno qui, si disse Lonà. Compreranno balocchi. Si divertiranno. Correranno fra la folla…

…saranno una folla…

Sentì il soffio di un alito sulla nuca. Una mano le sfiorò la schiena. Tom Piper? Si volse, presa dal panico. No, non era Tom Piper, solo una giraffa d’un ragazzo che ostentava di fissare in alto, verso le gallerie dei venditori di piacere. Lona si allontanò.

«L’intero processo, dal momento in cui le uova sperimentali fuoriuscirono dall’ovidotto della donatrice al momento del loro trapianto nell’infundibolo della ricevente, richiese da 30 a 40 minuti. Durante questo periodo di permanenza in vitro a temperatura ambiente, molte uova si raggrinzirono all’interno della loro zona pellucida.»