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Kevin e Oscar avevano sincronizzato la propria partenza per mezzanotte. Oscar arrivò in ritardo. Il suo orologio da polso funzionava male: aveva avuto una leggera febbre per alcuni giorni e il calore aveva fatto lavorare più in fretta il cervello di topo. Oscar era stato costretto a riazzerare l’orologio con la luce del sole, ma in qualche modo aveva commesso un errore; adesso il suo orologio era come stordito. Era in ritardo e gli ci volle uno sforzo maggiore di quello che aveva immaginato per arrampicarsi sul tetto del Collaboratorio. Prima di allora, non era mai uscito sull’armatura esterna del laboratorio. Nel buio freddo e umido di una notte di febbraio, il limite esterno della struttura era ventoso, intimidiva, e per arrivarvi Oscar dovette arrampicarsi lungo una serie apparentemente infinita di scalini.

Infine, intirizzito e tremante, giunse sul tetto stellato del Collaboratorio, ma il momento migliore era già passato. Kevin, saggiamente, si era già lanciato. Con l’aiuto di una krew di terra di Moderatori dall’aria annoiata, Oscar si assicurò all’imbracatura del velivolo dall’aria fragile e si lanciò non appena possibile.

La prima ora trascorse senza alcun problema, ma poi il velivolo incappò in una tempesta provocata dall’effetto serra che ribolliva al largo del cupo Golfo del Messico e venne trascinato fino in Arkansas. Sfruttando abilmente migliaia di letture radar Doppler, il velivolo, intelligente e spaventosamente piccolo, sfrecciò su e giù, in maniera nauseante, attraverso dozzine di correnti calde e di wind shear, dirigendosi verso la propria destinazione con la stolida ostinazione di un pacchetto di rete. Mentre l’attrito dell’imbracatura gli provocava tremende vesciche, Oscar finalmente svenne, penzolando sotto il velivolo come un sacco di rape.

La perdita di conoscenza del pilota non fece alcuna differenza per la macchina nomade. All’alba, Oscar si ritrovò a planare sulla piovosa palude del bayou Teche.

Il bayou Teche era lungo centotrenta miglia. Un tempo, circa tremila anni prima, era stato il ramo principale del fiume Mississippi ma, durante una breve e tremendamente catastrofica primavera del ventunesimo secolo, il bayou, con grande orrore e allarme di tutti, era ritornato a essere il ramo principale del Mississippi. La selvaggia inondazione, provocata dall’effetto serra, aveva spazzato tutto avanti a sé, travolgendo argini di cemento a prova di inondazione, querce frondose e ricoperte di muschio, affascinanti edifici delle piantagioni risalenti a prima della Guerra Civile, distillerie di zucchero rose dalla ruggine, oleodotti in disuso e tutto quello che incontrava sul suo cammino. L’inondazione aveva sommerso completamente le città di Breaux Bridge, St. Martinville e New Iberia.

Il Teche era sempre stato un mondo a parte, un bioma paludoso molto diverso dal vero e proprio Mississippi e dalle risaie a ovest. La distruzione dei ponti e delle strade che lo attraversavano e il conseguente abnorme sviluppo di paludi e acquitrini invasi dalla vegetazione, avevano riportato il Teche a una tranquillità umida e spettrale. Adesso il bayou era uno degli ecoambienti più selvaggi dell’intera America del nord — non perché fosse sfuggito alla speculazione edilizia, ma perché i danni inflitti da quest’ultima erano stati cancellati dalla furia delle acque.

Mentre iniziava a planare verso il basso, Oscar ebbe un po’ di tempo per studiare il posto in cui adesso viveva Fontenot. L’ex agente federale aveva scelto di andare ad abitare in un piccolo villaggio arretrato di case mobili di metallo, sollevate su blocchi di cemento e circondate da gabinetti esterni e generatori a cellule solari. Era uno slum in stile gotico del Sud per pescatori di acqua dolce, un labirinto acquatico di moli di legno, ninfee, e barche con il fondo piatto fatte di paglia e plastica. Nella luce rosata del primo mattino, le acque limacciose del bayou erano di un cupo verde scuro.

Oscar arrivò a destinazione con precisione incredibile: esattamente sul tetto inclinato della capanna di legno di Fontenot. Rimbalzò sul tetto, cadde a terra con un impatto che minacciò di fratturargli la caviglia. Il velivolo, adesso completamente inattivo, iniziò ad agitarsi con violenza nella brezza del mattino, facendo rotolare Oscar sul terreno.

Fortunatamente Fontenot uscì immediatamente dalla capanna con la sua andatura zoppicante e aiutò Oscar a bloccare il veicolo. Dopo un bel po’ di imprecazioni e di sforzi, riuscirono finalmente a fare uscire Oscar dall’imbracatura e a piegare e ridurre il velivolo alle dimensioni di una grande canoa.

«E così sei arrivato davvero» commentò Fontenot, ansimando per la fatica; poi diede una solenne pacca sulla spalla di Oscar. «Ma dove hai preso quel buffo casco? Hai un’aria davvero ridicola.»

«Sì. Per caso hai visto la mia guardia del corpo? Sarebbe dovuta arrivare prima di me.»

«Dai, entra in casa» lo invitò Fontenot. Fontenot non era certo uomo da vivere in case mobili di metallo. La sua capanna era una struttura sbilenca costruita con vere assi di legno; aveva il tetto coperto di tegole di legno grigio ed era sorretta da una ragnatela di palafitte. La vecchia capanna era stata trascinata sul bordo dell’acqua e riassemblata senza molta cura professionale. Quando venne aperta, la porta cigolò e stridette, strisciando contro l’architrave. All’interno i pavimenti di legno erano visibilmente inclinati.

Lo spoglio salotto di Fontenot era arredato con mobili di vimini, un’amaca grande e robusta, un piccolo frigorifero a energia solare e una quantità impressionante di equipaggiamento per la pesca di prima qualità; era fissato alla parete di fondo della capanna, oppure sistemato, con l’ordine ossessivo di cui danno prova tutti i militari, in armadietti di compensato chiusi a chiave. L’armadietto più vicino esibiva una vasta raccolta di esche artificiali: vermi a batteria, lampeggiatori a ultrasuoni, cucchiai rotante vermi di gelatina che emettevano feromoni.

«Solo un attimo» si scusò Fontenot, entrando in una piccola stanza sul retro con una serie di tonfi e di cigolii. Oscar ebbe il tempo di notare una Bibbia che sembrava essere stata sfogliata molte volte e, sul pavimento, un vasto assortimento di lattine di birra vuote. Poi Fontenot riapparve, trascinandosi dietro Kevin con una mano sotto l’ascella. Kevin era stato legato e imbavagliato con del nastro adesivo.

«Conosci questo tizio?» chiese Fontenot.

«Sì. È la mia nuova guardia del corpo.»

Fontenot fece cadere Kevin sul divano di vimini, che scricchiolò rumorosamente sotto il suo peso. «Senti, questo ragazzo lo conosco anch’io. Conoscevo suo padre. Gestiva i sistemi di rete di una milizia di estrema destra. Sai, quei tizi di razza bianca armati fino ai denti, con sguardi duri e orrendi tagli di capelli. Se hai assunto questo Hamilton come tua guardia del corpo, devi essere impazzito.»

«Io non l’ho ‘assunto’, Jules. Da un punto di vista squisitamente tecnico, è un impiegato federale. Lui è il responsabile non solo della mia sicurezza personale, ma di quella di un’intera installazione federale.»

Fontenot infilò una mano nella tasca della tuta sporca di fango, prese un coltello da pescatore. «Non voglio saperlo, non mi importa! Non sono più miei problemi.» Tagliò il nastro adesivo e liberò Kevin, strappandogli il bavaglio con un singolo gesto. «Mi dispiace, ragazzo» borbottò. «Penso che avrei fatto meglio a crederti.»

«Non c’è problema!» esclamò in tono cavalleresco Kevin, massaggiandosi i polsi resi appiccicosi dal nastro adesivo e sforzandosi di mostrarsi amichevole. «Succede tutte le volte!»