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Oscar vide anche orti curati, mucchi di letame su cui sciamavano le mosche e rifiuti notturni in fetidi secchi di legno.

Gli abitanti del luogo allevavano una quantità considerevole di galline. Le galline avevano tutte lo stesso corredo genetico: discendevano tutte dalla stessa gallina, clonata in vari stadi di crescita. Gli haitiani avevano anche numerosi cloni di una normale capra. Si trattava di una creatura dall’aria scontrosa e dalla barbetta diabolica — un vero superuomo nietzscheano tra le capre — e ce n’erano interi greggi. Inoltre avevano piante di fagioli rampicanti, spighe di grano mostruosamente grandi, alte piante di okra — un vegetale commestibile simile alla malva — enormi zucche gialle, bambú duri come roccia, qualche canna da zucchero. Alcuni degli abitanti erano pescatori. Qualche tempo prima, avevano pescato una creatura incredibilmente grande, adesso ridotta a uno scheletro le cui ossa erano spesse quanto il polso di un uomo. Lo scheletro aveva fanoni grandi come il radiatore di un’auto.

Gli abitanti del villaggio indossavano vestiti fatti in casa. Gli uomini portavano rozzi cappelli di paglia, camicie con i bottoni prive di colletto e pantaloni tenuti su con una cordicella. Le donne indossavano vesti lunghe fino alle caviglie, grembiuli bianchi e grandi cuffie.

Tutti davano prova di un comportamento amichevole, ma distaccato. Sembrava che a nessuno importasse molto dei visitatori. Gli haitiani erano tutti intensamente indaffarati nei loro compiti quotidiani. Tuttavia, una piccola folla di bambini curiosi si radunò intorno ai tre nuovi arrivati e iniziò a seguirli, facendo le loro imitazioni e ridacchiando.

«Questo proprio non lo capisco» commentò Kevin. «Pensavo che si trattasse di una specie di campo di concentramento. Ma qui questa gente se la passa decisamente bene.»

Fontenot grugnì in segno di assenso. «Sì, doveva trattarsi di un posto attraente. Vedete, si tratta di un progetto di agricoltura sostenibile. Si aumenta la produttività ricorrendo ad animali e a piante migliorati geneticamente, ma non c’è combustione fossile, nessuna emissione di diossido di carbonio. Forse, un giorno, queste persone torneranno a Haiti e insegneranno a tutti come vivere in questo modo.»

«Ma non funzionerebbe mai» commentò Oscar.

«Perché no?» chiese Kevin.

«Perché gli olandesi ci stanno provando da anni. Nel mondo avanzato, tutti pensano di potere reinventare la vita contadina e di mantenere le società tribali felici e ignoranti. Ma è inutile fornire loro la tecnologia appropriata. Perché la vita contadina è noiosa.»

«Sì» affermò Fontenot. «È esattamente questa considerazione che mi ha fatto venire i primi sospetti. Adesso queste persone dovrebbero saltellarci intorno, chiedendoci contanti e radio a transistor, proprio come farebbe qualsiasi contadino con un turista americano. E invece non ci degnano neppure di un’occhiata. E poi, ascoltate; sentite questo suono simile a un mormorio?»

«Vuoi dire gli inni?» chiese Oscar.

«Oh, certo, cantano sempre quegli inni. Ma la maggior parte delle volte, pregano. Tutti gli adulti pregano, uomini e donne. Pregano tutti, continuamente. E intendo davvero dire continuamente, Oscar.»

Fontenot fece una pausa. «Sapete, ogni tanto arriva qui qualcuno dall’esterno. Cacciatori, pescatori… Ho sentito delle storie. Loro pensano che questa gente sia molto religiosa, capite, degli haitiani bizzarri seguaci del voodoo. Ma non è così. Vedete, io ero nel servizio segreto. Ho passato molti anni della mia vita a cercare di individuare tra la folla il pazzo, il maniaco omicida. Nel mio campo finiamo per conoscere molto bene gli psicopatici. Ecco perché so con certezza che c’è qualcosa che non va nelle teste di questa gente. Non si tratta di psicosi. E non si tratta neppure di droghe. Certo, la religione ha qualcosa a che fare con questa faccenda — ma non si tratta soltanto di religione. A questa gente è stato fatto qualcosa.»

«Qualcosa di neurale» ipotizzò Oscar.

«Sì. E anche loro si rendono conto di essere diversi. Sanno che, in quella miniera di sale, è accaduto loro qualcosa, ma sono convinti che si tratti di una rivelazione sacra. Lo spirito è entrato nelle loro teste — lo chiamano lo ‘spirito nato due volte oppure ‘lo spirito rinato’.» Fontenot si tolse il cappello e si asciugò la fronte. «Quando ho scoperto questo posto per la prima volta, ho passato gran parte del giorno qui, parlando con questo vecchio — Papa Christophe, si chiama così. È più o meno il loro capo, o almeno funge da loro portavoce. Questo tizio è un pezzo grosso locale perché è stato cambiato in maniera più profonda da qualsiasi cosa abbiano subito. Capite, lo spirito non si impossessa di tutti allo stesso modo. Per esempio, i bambini non lo possiedono affatto; sono bambini normali. La maggior parte degli adulti non fanno che salmodiare e andarsene in giro con occhi stranamente luccicanti. Ma poi ci sono questi apostoli, come Christophe. Gli houngan. I saggi.»

Oscar e Kevin si consultarono brevemente. Kevin era molto spaventato dalla storia di Fontenot. Non gli piaceva per nulla essere circondato da immigrati clandestini di pelle nera nel bel mezzo di una palude impenetrabile. Nella testa di Kevin danzavano visioni di bollenti calderoni di ferro da cannibali… Ma questo era logico: gli anglo non erano mai riusciti a superare lo choc di essere diventati una minoranza razziale.

Però Oscar fu adamantino: visto che erano arrivati fin lì, non poteva non rivolgere alcune domande a Papa Christophe. Fontenot riuscì finalmente a localizzare l’uomo in questione: era impegnato a lavorare in una capanna ai bordi del villaggio.

Papa Christophe era un uomo anziano con una lunga cicatrice di machete sulla testa. La pelle rugosa e le spalle curve suggerivano una vita intera di carenze vitaminiche. Sembrava avere cento anni, ma probabilmente ne aveva soltanto sessanta.

Papa Christophe rivolse loro un sorriso sdentato. Era seduto su uno sgabello a tre gambe sul pavimento in terra battuta della capanna. Tra le mani stringeva un martello di legno, un bulino di ferro grezzo e una statuina di legno scolpita a metà. In quel momento era impegnato a scolpire con abilità il legno di cipresso scuro. La statuina raffigurava una santa oppure una martire: una donna dal corpo sottile e allungato, simile alle sculture di Modigliani, con un volto sereno e dall’espressione stilizzata, le mani giunte in preghiera. Le gambe erano lambite da lingue di fiamma.

Oscar rimase immediatamente impressionato. «Ehi! Arte primitiva! Questo tizio è davvero bravo! Sarebbe disposto a vendermi quell’oggetto?»

«Sta’ calmo» lo avvertì Kevin. «E metti via il portafoglio.»

L’unica stanza della capanna era calda e piena di vapore, poiché ospitava una rozza distilleria artigianale. Molto probabilmente quella distilleria non era stata contemplata nel progetto originale del villaggio, ma gli haitiani erano gente pratica e avevano le loro esigenze. La distilleria era stata ricavata da parti di automobili saldate tra loro. A giudicare dall’odore, si stava distillando melassa di canna da zucchero in un rum capace di fare girare la testa. Gli scaffali lungo le pareti erano pieni di bottiglie di vetro recuperate dai detriti del bayou. Metà delle bottiglie erano colme di alcol di colore giallino e tappate con un po’ di tela e dell’argilla.

Fontenot e il vecchio stavano parlando in un francese stentato; i rispettivi dialetti erano molto lontani tra loro. Alimentata dai trucioli che Christophe ricava dalla statuina, la distilleria continuava a bollire la melassa. Il rum scorreva in un tubo di ferro piegato e poi in una bottiglia di vetro, ticchettando come un orologio ad acqua. Papa Christophe si dimostrò abbastanza amichevole. Chiacchierava, scolpiva e borbottava qualcosa tra sé e sé, il tutto nello stesso ritmo regolare scandito dalle gocce d’acqua.