«Adesso basta. Me ne vado. Buona notte, Oscar.»
«Addio.»
Bambakias lasciò il Texas il mattino seguente con tutta la sua krew, inclusa Clare. Oscar non venne smascherato. Non saltò fuori nessun nastro della loro conversazione. Non vi fu alcuna edizione speciale dei notiziari via rete sul suo tête-à-tête con una ex fidanzata. Trascorsero due giorni.
Poi giunsero grandi notizie dal fronte della guerra.
Gli olandesi si stavano arrendendo.
Il primo ministro olandese rilasciò una dichiarazione pubblica. Era una donna piccola, amareggiata e con i capelli grigi. Affermò che per un paese disarmato come l’Olanda era impossibile resistere alle forze armate dell’ultima superpotenza militare del mondo; che era impossibile per il suo popolo affrontare la catastrofe ecologica che avrebbe provocato il bombardamento delle dighe; che lo spietato ultimatum dell’America aveva infranto la volontà di resistenza della sua nazione; che l’Olanda si arrendeva senza condizioni; che il paese dichiarava di essere una nazione aperta, e il suo piccolo esercito avrebbe deposto le armi e gli olandesi avrebbero accettato la presenza di truppe di occupazione; che lei e il suo gabinetto avevano appena firmato la resa e il governo olandese si sarebbe sciolto volontariamente a mezzanotte. Infine proclamò che la guerra era terminata, che gli americani avevano vinto e si rivolse al popolo americano, ricordando la sua tradizione di magnanimità nei confronti dei nemici sconfitti. Il discorso durò esattamente otto minuti. E poi la guerra finì.
Per uno strano istante della storia, gli Stati Uniti impazzirono di gioia, ma l’ondata di follia si calmò senza avere causato troppe vittime. Le lunghe tribolazioni subite avevano reso l’opinione pubblica americana stranamente malleabile. Non trascorsero neppure otto ore prima che i soliti sapientoni della rete iniziassero a spiegare perché una vittoria totale era stata inevitabile.
La vittoria aveva i suoi vantaggi. Era impossibile opporsi al prestigio di un presidente che era anche un eroe. I sondaggi in suo favore schizzarono oltre i novanta e rimasero lì, come se fossero stati inchiodati all’albero maestro di una nave.
Il presidente non si fece cogliere di sorpresa da questi sviluppi. Non sprecò tempo; non un’ora, e neppure un picosecondo.
Con un ordine esecutivo requisì tutte le linee aree domestiche. Il mattino seguente c’erano sciami di soldati americani in ogni aeroporto olandese. I soldati yankee, storditi dal jet-lag, furono accolti da una popolazione olandese cortese e pentita, che sventolava bandierine a stelle e strisce. Il presidente dichiarò che la guerra era finita — preoccupandosi a stento di chiedere l’autorizzazione del Congresso — e annunciò l’inizio di una nuova epoca americana. Da quel momento in poi, quell’epoca venne conosciuta come il Ritorno alla Normalità.
Come un mago che infili lame in un barile, il presidente inizio a rimodellare il corpo politico americano senza alcuno spargimento di sangue.
Il manifesto della normalità era un documento in ventotto punti piuttosto sorprendente. Attingeva dai programmi di così tanti dei partiti politici americani che questi ultimi vennero presi assolutamente di contropiede. Il piano nazionale del presidente era affatto difforme dalla piattaforma politica del suo partito o del nucleo elettorale che sosteneva il Blocco tradizionale di sinistra. L’idea che il presidente aveva della normalità aveva in serbo sorprese per chiunque.
Il dollaro avrebbe subito una forte svalutazione e sarebbe stato reso di nuovo convertibile. Un’amnistia generale avrebbe liberato chiunque i cui crimini potessero essere considerati sia pure remotamente politici. Un nuovo sistema fiscale avrebbe stangato i super-ricchi e penalizzato severamente la produzione di diossido di carbonio. Gli edifici derelitti e abbandonati sarebbero stati nazionalizzati en masse, e poi ceduti a chiunque fosse disposto a ripararli. Le città abbandonate a se stesse e le cittadine fantasma — e c’erano molte, specialmente nell’Ovest — sarebbero state cancellate dalla faccia della Terra e sostituite da boschi di alberi dalla crescita rapida. Da quel momento in poi i blocchi stradali sarebbero stati considerati un atto di pirateria e sarebbero stati puniti senza pietà da bande mobili della CDIA, che, essendo tutte formate da nomadi dal temperamento decisamente focoso e piuttosto esperti di blocchi stradali, sapevano benissimo come mettere fine a quella pratica.
Venne proposto un emendamento costituzionale per creare un nuovo quarto ramo del governo per i cittadini americani la cui residenza primaria fosse costituita dalle reti virtuali. Le ottocentosette agenzie di polizia federale dell’America sarebbero state ridotte a quattro. C’era anche un piano di riforma per le forze militari americane sorprendentemente vittoriose.
Inoltre, il presidente presentò anche un nuovo piano per la sanità pubblica, più o meno strutturato su quello, molto ragionevole, del Canada. Ovviamente non sarebbe mai stato approvato. Era stato messo lì deliberatamente, in modo che l’opposizione domestica potesse avere il piacere di distruggere qualcosa.
Era impossibile opporsi al fatto compiuto. Men che mai avrebbe potuto opporsi lo stato della Louisiana. Riconoscendo quella svolta irresistibile negli eventi, Green Huey si piegò con il vento.
Si dimise dalla carica di governatore. Implorò il perdono del suo popolo e versò lacrime davanti alle telecamere, esprimendo un profondo pentimento per gli eccessi a cui si era abbandonato in passato e promettendo una politica di cooperazione per il ritorno alla normalità approvata al cento per cento dal governo federale. Anche il vice governatore si dimise, ma nessuno sentì la sua mancanza, visto che era sempre stato il burattino più fedele di Huey.
Il Senato statale, tutto nelle mani di Huey, nominò subito un nuovo governatore. Si trattava di una bella e giovane donna di colore di New Orleans, una ex reginetta di bellezza, una donna tanto avvenente (almeno per essere un funzionario dell’esecutivo) che le telecamere dei media globali non riuscivano a staccarle gli obiettivi di dosso.
Il primo atto del governatore come capo dell’esecutivo fu di perdonare tutti i membri del precedente governo dello Stato, incluso, soprattutto, Green Huey. Il secondo atto fu di formalizzare le relazioni — ‘formali e informali’ — dello stato della Louisiana con i Regolatori. Da quel momento in poi, i Regolatori sarebbero divenuti i fedeli membri locali di una CDIA estesa a livello nazionale, modellata direttamente sull’agenzia federale che il saggio presidente, nella sua infinita bontà, aveva imposto alla repubblica americana. Qualcuno fece notare che alcuni ospiti haitiani dello Stato della Louisiana erano ancora prigionieri dei federali e il nuovo governatore, poiché era di origine haitiana, chiese che venisse loro concessa la grazia.
Una intraprendente krew mediatica — ovviamente dopo avere ricevuto una soffiata — riuscì a localizzare e intervistare alcuni degli haitiani che avevano passato il tempo nel loro kraal medico federale. Gli haitiani, dopo essere stati strappati alle loro abitazioni e sottoposti a una seria infinita di esami clinici, naturalmente espressero un forte desiderio di tornare al loro villaggio nelle paludi. Però, in fin dei conti, si trattava soltanto di haitiani, dunque nessuno prestò molta attenzione ai loro desideri. Rimasero nella loro prigione da immigrati illegali, mentre il presidente attendeva che l’ex governatore facesse la mossa successiva.
Sulla questione del Collaboratorio nazionale di Buna e sui suoi frenetici riformatori, il presidente non disse e non fece praticamente nulla. Evidentemente aveva pensieri più importanti per la testa e quel presidente era nella posizione di fare in modo che i suoi pensieri fossero sempre alla ribalta.