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Bambakias non era un operaio a giornata. Era un uomo colto e benestante, sua moglie era una nota collezionista d’arte. Ed era proprio per questo che la coppia provava un perverso piacere nel farsi venire le vesciche alle mani, nello strapparsi i tendini e nel sudare come maiali. Il volto dell’architetto, di una bellezza matura, che non nascondeva i segni del tempo, si illuminava di una smagliante espressione da noblesse oblige mentre faticava nella sua tuta da falso operaio e nel suo cinto erniario. La sua elegante moglie traeva un evidente piacere masochistico nel sollevare l’equipaggiamento da costruzione mentre i suoi lineamenti finemente cesellati assumevano la stessa espressione decisa di una top model intenta a sollevare pesi in palestra.

D’altra parte, Oscar era cresciuto a Hollywood, dunque non aveva mai fatto troppo caso alle ostentazioni esibizionistiche della coppia. Il coordinato cappello e mantellina firmati, gli abiti fatti su misura, le manifestazioni di beneficenza a Boston per attirare l’attenzione… Per Oscar si trattava di cose familiari e, di conseguenza, rassicuranti. In ogni modo, il sistema di costruzione era davvero ottimo. Non era una montatura: non c’era alcun dubbio che funzionasse davvero. Quel gioco non poneva alcun limite al numero dei partecipanti. Chiunque poteva trovare un ruolo nel sistema. Era nello stesso tempo una rete e un modus vivendi, che fluiva dalla comunicazione e dalla progettazione digitali alla realtà di pareti e di pavimenti. Lavorare con un sistema del genere era davvero confortante, perché manteneva sempre le sue promesse, garantiva sempre dei risultati.

L’albergo texano, per esempio, era una costruzione interamente virtuale, una serie infinita di uno e zero incorporati in una serie di microprocessori. E tuttavia l’albergo desiderava intensamente esistere. Sarebbe diventato splendido ed era già molto intelligente. Riusciva già a dirigere la propria comparsa nella realtà fisica a partire da mucchi sparpagliati a caso di materiali grezzi. Sarebbe stato un buon albergo. Avrebbe allietato il vicinato e valorizzato la città. Avrebbe tenuto lontani il vento e la pioggia. Le persone sarebbero state contente di fermarsi lì.

Oscar trascinò il mattone che aveva affermato di essere una pietra angolare verso l’angolo della parete meridionale. «Questo è il mio posto» dichiarò la pietra angolare. «Stendi della malta sopra di me.»

Oscar raccolse una spatola. «Ciao, sono lo strumento per stendere la malta» squittì allegramente la piccola spatola. Oscar cominciò a usarla spalmandovi sopra una discreta quantità di pasta grigia, spessa e granulosa. Quella sostanza polimerica non era vera ‘malta’, ma era economica quanto quella tradizionale e funzionava molto meglio, dunque aveva naturalmente rubato il nome alla sostanza originale.

Oscar sollevò il mattone verso la parte superiore della parete, che ormai arrivava all’altezza dell’anca. «A destra» si affrettò a indicare il blocco. «A destra, a destra, a destra… a sinistra… spostami un po’ indietro… Girami, girami, girami… Bene! Ora passa lo scanner.»

Oscar sollevò lo scanner legato a una cordicella e lo passò sul blocco. Lo scanner si collegò, confrontò la posizione esatta del blocco ed emise un trillo di soddisfazione.

Erano ormai due ore che Oscar sistemava mattoni. Si era recato lì nel cuore della notte, aveva collegato e avviato il sistema e aveva iniziato a lavorare; il resto della krew aveva smesso con il calare del buio.

Quel particolare muro non poteva crescere ancora di molto. Ben presto sarebbe arrivato il momento di iniziare a lavorare all’impianto idraulico. Oscar odiava quel lavoro: era sempre il compito più difficile. Si trattava di una tecnica molto vecchia, tutt’altro che plug-and-play, non così facile e liscia come il flusso di bit. Gli errori commessi durante il montaggio dell’impianto idraulico erano frequenti e molto fastidiosi. Quando sarebbe arrivato il momento di posare i tubi, il sistema di costruzione di Bambakias avrebbe prudentemente smesso di funzionare. Tutte le funzioni più avanzate sarebbero rimaste in standby fino a quando gli operai non avessero portato a termine il loro lavoro.

Oscar si tolse il casco e si coprì le orecchie gelate con le mani protette dai guanti da lavoro. La schiena e le spalle gli dicevano che, il mattino seguente, si sarebbe pentito amaramente di quello che stava facendo. Be’, almeno sarebbe stato un nuovo tipo di rimpianto.

Oscar camminò sotto uno dei riflettori da cantiere a forma di parabola per cercare le casse che contenevano l’occorrente per l’impianto idraulico. Il riflettore più vicino ruotò sull’alto palo su cui era montato per seguire i passi di Oscar, che salì sopra una gigantesca bobina di cavo per osservare dall’alto l’intero cantiere.

Il cono di luce si sollevò con lui e illuminò l’erba invernale calpestata. Improvvisamente Oscar scorse uno sconosciuto che indossava un giaccone imbottito e un berretto di lana; era immobile sul marciapiede crepato, sotto un pino, oltre il recinto di sicurezza in plastica arancione.

I siti di costruzione di Bambakias attiravano sempre i curiosi, ma sicuramente solo pochissimi curiosi se ne sarebbero rimasti al freddo e al buio all’una del mattino a osservare la scena. Tuttavia, persino la piccola Buna aveva una vita notturna. Presumibilmente quell’uomo era semplicemente ubriaco.

Oscar avvicinò alla bocca le mani protette dai guanti e unite a coppa. «Le andrebbe di dare una mano?» Era l’invito standard che veniva rivolto in ogni sito che utilizzava il sistema di Bambakias. Faceva parte del gioco. Era sorprendente quanti volontari energici e disinteressati la krew di Bambakias fosse riuscita ad attirare con quello stratagemma.

Lo sconosciuto passò goffamente attraverso una breccia nel reticolato arancione, entrando nell’arco di luce di Oscar.

«Benvenuto nel luogo in cui sorgerà il nostro albergo! È mai stato qui prima d’ora?»

In silenzio, l’altro scosse la testa coperta dal berretto di lana.

Oscar scese dalla bobina, trovò una confezione di guanti sottovuoto e gliela porse. «Provi questi.»

La sconosciuta — si trattava di una donna — sfilò le mani nude, simili a zampe di ragno, dalle tasche del giaccone. Oscar trasalì, quindi sollevò lo sguardo dalle dita al volto nascosto dall’ombra. «Dottoressa Penninger! Buongiorno.»

«Signor Valparaiso.»

Oscar estrasse dall’involucro un paio di guanti comodi, di misura extra large, le cui dita in plastica morbida erano provviste di piccole protuberanze per favorire la presa sugli oggetti. Non si era aspettato di avere compagnia in quel posto e quella notte, men che mai la compagnia di un membro del consiglio direttivo del Collaboratorio.

Era stato colto alla sprovvista dall’incontrare Greta Penninger in quelle circostanze, ma ormai non aveva alcun senso esitare. «Per favore, provi a infilarsi questi guanti, dottoressa… Vede la striscia gialla lungo le nocche? Sono indicatori di posizione incorporati nei guanti, fanno in modo che il nostro sistema di costruzione sia sempre al corrente della posizione esatta delle sue mani.»

La dottoressa Penninger si infilò i guanti, ruotando i polsi sottili come un chirurgo che si lavasse le mani prima di operare.

«Avrà bisogno di un casco, di una cintura e di un paio di puntali di protezione per le scarpe. Anche delle ginocchiere non sarebbero una cattiva idea. Adesso la collegherò al nostro sistema, se tutto è a posto.»