Adesso il sistema registrava la presenza di Oscar e i suoi movimenti insieme a tutto quanto avesse rilievo nell’edificio: mobili, dispositivi, utensili, stoviglie, abiti, scarpe, animali domestici e naturalmente gli stessi squatter. I localizzatori erano piccoli come puntini arancioni e resistenti come chiodi da cinque centimetri, dunque potevano essere piazzati in maniera invisibile su tutti i congegni di qualche interesse.
Questo sistema di rilevamento generale rendeva gli oggetti contenuti nell’edificio a prova di ladro. Rendeva anche piuttosto semplice realizzare la proprietà comune. Non era mai difficile trovare un utensile quando la sua collocazione, le sue condizioni e la sua storia erano seguiti e monitorati in tempo reale. Era anche molto difficile per i fannulloni rubare o abusare dei beni comuni senza essere identificati. Quando funzionava, il socialismo digitale era considerevolmente più economico e più conveniente della proprietà privata.
Tuttavia, pur funzionando, quella tecnologia aveva un tremendo effetto collaterale: rivoltava la vita delle persone come un calzino. C’erano bambini che giocavano nei corridoio dell’edificio — in effetti, almeno a giudicare dal disordine, i bambini degli squatter vivevano in quelle sale. I bambini erano sorvegliati e protetti, circondati da una vera orgia di giocattoli con i colori della comunità e registrati nel sistema.
Oscar si fece strada attraverso un fitto ammasso di tricicli e animali gonfiabili, poi salì al terzo piano in un ascensore incredibilmente affollato. Quella sezione dell’edificio aveva il forte odore della cucina dell’India orientale — curry, papadam, forse del Pollo masala. Probabilmente, a giudicare dall’odore, nel palazzo c’erano allevamenti di polli sorvegliati dal computer.
Le doppie porte della stanza 358 si aprirono fiduciosamente al suo tocco. Oscar si trovò nello studio di uno scultore, un luogo spoglio e maleodorante, ricavato da una serie di piccoli uffici anneriti dal fuoco. Gli uffici federali bruciati avevano lasciato dei lugubri resti: una griglia di linee annerite sul pavimento e le stalagmiti delle workstation di plastica fusa. Però l’ufficio modificato era stato recuperato. Adesso c’era un banco da lavoro improvvisato ricavato da traversine ferroviarie, in mezzo a pile di metallo riciclato da carcasse di automobili, tubi dell’ossigeno appiattiti e tozze saldatrici. Il pavimento di calcestruzzo rimbombò sotto le scarpe di Oscar.
Era chiaro che era entrato nella stanza sbagliata.
Il suo telefono squillò. Rispose. «Pronto!»
«Sei proprio tu?» Era Greta.
«Sono io, vivo e vegeto.»
«Questa non è una linea erotica?»
«No. Uso quel centralino erotico per indirizzare le mie chiamate private. Su quelle linee c’è un intenso traffico vocale, cosa molto utile contro qualsiasi tentativo di rintracciare le chiamate. E se qualcuno sta eseguendo un’analisi del traffico, presumeranno soltanto… Be’, lasciamo stare i dettagli tecnici. Il punto è che possiamo parlare insieme in tutta sicurezza su un telefono non crittografrato.»
«Suppongo che sia okay.»
«Dài, parliamo, Greta. Dimmi come stai. Dimmi tutto.»
«Sei al sicuro a Washington?»
Oscar strinse teneramente il telefono di stoffa. Era come avere l’orecchio di Greta nella propria mano. Ora lo preoccupava molto meno il fatto di essersi perduto senza speranza nell’edificio sbagliato.
«Sto perfettamente bene. Questo, dopo tutto, è il luogo in cui svolgo la mia carriera.»
«Sono preoccupata per te, Oscar.» Una lunga pausa. «Penso… Penso che, forse, potrei venire a Boston, più in là. Lì si terrà un simposio neurologico. Forse potrei trovare un po’ di tempo.»
«Eccellente! Dovresti assolutamente venire a Boston. Ti mostrerò la mia casa.» Una lunga pausa disturbata dai crepitii.
«Sembra una prospettiva interessante…»
«Devi farlo. È quello di cui abbiamo bisogno. È una cosa buona per noi.»
«Devo dirti qualcosa d’importante…»
Oscar esaminò velocemente il livello della batteria, poi avvicinò di nuovo il telefono all’orecchio. «Va’ pure avanti, Greta.»
«È così difficile da spiegare… è solo che… mi sento così diversa ora e… Mi sento incredibilmente ispirata ed è proprio…» Un silenzio che si prolungò.
«Va’ avanti» la esortò Oscar. «Sfogati.»
La voce di lei si abbassò in un sospiro confidenziale. «Si tratta delle mie fibrille amiloidi…»
«Che cosa?»
«Le mie fibrille. In un essere vivente ci sono diverse proteine neurali che formano le fibrille amiloidi. E sebbene non abbiano sequenze collegate, polimerizzano tutte in fibrille dotate di una ultrastruttura simile. Le loro conformazioni mi hanno dato molti problemi. Un mucchio di problemi.»
«Davvero? È un peccato.»
«Ma poi, ieri, stavo facendo esperimenti con i miei adenotrasportatori GDNF e ho impiantato una nuova variante amilogenetica nel trasportatore. Ho solo calcolato la loro massa con la spettrometria gassosa. E, Oscar, funzionano. Sono tutti enzimaticamente attivi e tutti hanno i legami disulfidici intatti e corretti.»
«Sei meravigliosa quando spieghi le cose.»
«Funzionano in vivo! E questa tecnica è molto meno invasiva della stupida e antiquata terapia genetica. Questo è sempre stato il limite: trovare un metodo economico e permanente di trasmissione. E se riusciamo a fabbricare degli amiloidi come facciamo con la dopamina e altri fattori neurotrofici… Voglio dire, se riusciamo a trasferire tutti quei carichi in tessuti neurali vivi… Be’, non ho certo bisogno di spiegarti cosa significhi questo.»
«No, no» rispose prontamente Oscar, «su questo punto sono molto ferrato.»
«Bellotti e Hawkins stanno fabbricando proprio amiloidi autoreplicantisi, dunque si occupano esattamente di questo problema. E daranno una dimostrazione all’AMAC di Boston.»
«Allora, dovresti andare assolutamente a Boston» commentò Oscar. «È assurdo che un parassita come Bellotti ti possa battere sul tempo! Sistemerò tutto io per conto tuo, e immediatamente. Non preoccuparti di organizzare il viaggio. La mia krew può prenotare tutti i mezzi di trasporto fino a Boston. Sull’aereo, avrai il tempo di scrivere la tua presentazione. Ti prenderemo una suite nell’albergo in cui si svolge la conferenza e ti faremo portare i pasti in camera per non farti perdere tempo. Dovresti cogliere quest’opportunità, Greta. Quando lavori in laboratorio, non hai mai tempo per pensare veramente a te stessa.»
Greta era raggiante. «Bene…»
La porta della camera 354 si aprì e una donna di colore entrò su una cigolante sedia a rotelle a motore. Aveva una folta chioma di capelli grigi sporchi e un carico di sacchetti verdi d’immondizie.
«Capisco il tuo lavoro» disse Oscar al telefono, mentre si scostava cautamente dalla porta. «La faccenda di Boston è totalmente fattibile.»
«Salve!» lo salutò la donna sulla sedia a rotelle, agitando una mano. Oscar coprì il telefono con la mano e annuì cortesemente.
La donna di colore saltò su dalla sedia a rotelle, la richiuse e tenne la porta aperta. Tre uomini anglo entrarono nella stanza, in salopette di jeans, stivali e cappelli di paglia sfondati. Avevano i capelli tinti di blu, i volti erano striati dalle pitture di guerra dei nomadi e portavano tutti degli occhiali da sole. Uno di loro spingeva una pesante carriola piena di fili e schermi piatti, mentre gli altri due portavano delle grandi scatole color kaki contenenti materiale elettrico.
«Pensi veramente che le fibrille siano abbastanza importanti da fare tutto questo per me?» chiese Greta in tono lamentoso.
«Le fibrille sono estremamente importanti.»
La donna con la sedia a rotelle si tolse la sua orribile parrucca, rivelando un’ordinata serie di treccine, poi si tolse il suo rozzo caffettano. Sotto, indossava una gonna blu, un gilè blu, una camicetta di seta e un pantalone di seta.