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Il senatore era sdraiato, nudo e a faccia in giù, su un lettino ospedaliero snodabile, con un asciugamano che gli copriva il posteriore. Un massaggiatore della krew stava lavorando sul collo e sulle spalle.

Oscar rimase scioccato. Aveva saputo che lo sciopero della fame quasi totale, durato ventotto giorni, aveva fatto perdere a Bambakias molto peso, ma non si era reso conto dell’effetto che aveva sulla carne umana. Bambakias sembrava invecchiato di dieci anni. Ballava nella sua pelle, come se si trattasse di una tuta.

«È bello vederti, Oscar» lo salutò Bambakias.

«Posso presentarle la dottoressa Penninger?» replicò Oscar.

«Non un altro dottore» gemette il senatore.

«La dottoressa è una ricercatrice scientifica federale.»

«Oh, ma certo.» Bambakias si rizzò a sedere sul letto, aggiustandosi distrattamente l’asciugamano. La sua mano era divenuta quasi scheletrica. «Va bene così, Jackson… Porta ai miei amici un paio di… cos’abbiamo? Porta loro un po’ di succo di mela.»

«Non ci dispiacerebbe un buon pranzo» replicò Oscar. «Ho promesso alla dottoressa Penninger di farle assaggiare un po’ della tua zuppa di pesce di Boston.»

Bambakias ammiccò, gli occhi infossati, le orbite sbiancate. «Di recente il mio cuoco non ha avuto molte occasioni di fare pratica.»

«Vuoi dire che non sa più fare la zuppa speciale?» lo rimproverò scherzosamente Oscar. «Ma come è possibile? Per caso è morto?»

Bambakias sospirò. «Jackson, provvedi affinché il mio grasso direttore di campagna riceva un po’ di maledetta zuppa di pesce.» Bambakias abbassò lo sguardo verso le proprie mani rinsecchite, studiò il loro tremore con totale disinteresse. «Di cosa stavamo parlando?»

«La dottoressa Penninger e io siamo venuti qui per discutere sulla politica scientifica.»

«Ma certo. Allora mi vestirò.» Bambakias si alzò barcollando sui suoi piedi ossuti e uscì dalla stanza, scomparendo dietro un paravento shoji scorrevole. Lo udirono chiamare con voce fievole il suo consulente per l’immagine.

Una tenda pieghettata si sollevò verso l’alto come una palpebra, rivelando un lucido fascio di luce invernale che filtrava attraverso le vetrate. L’ufficio d’angolo era un piccolo miracolo di aria e di luce; perfino mezzo vuoto, dava l’impressione di essere uno spazio completo, pieno.

Un piccolo robot peloso entrò nell’ufficio reggendo un paio di pacchetti di plastica tra le sue braccia tubolari. Poggiò i pacchetti sulla moquette e andò via.

I pacchetti si contorsero e si sollevarono, con una sommessa sinfonia interna di scricchiolii e di cigolii. Aste e cavi geodesici lampeggiarono come vettori grafici sotto la tappezzeria traslucida. Improvvisamente i pacchetti divennero un paio di sedie con i braccioli.

Greta aprì la sua nuova borsetta in stile executive e portò un fazzoletto al naso. «Sapete, qui dentro c’è un’aria davvero buona.»

Bambakias tornò, indossando una maglietta e pantaloni di seta grigia, seguito come un’ombra da una giovane donna che portava le scarpe, la camicia e le bretelle. «Dov’è il mio cappello?» domandò in tono querulo Bambakias. «Dov’è il mio mantello?»

«Queste sedie sono molto interessanti» commentò Greta. «Me ne parli.»

«Oh, sono stato io a progettare queste sedie, ma non hanno mai avuto successo» rispose Bambakias, infilando un braccio scheletrico nella manica della camicia. «Non so perché, ma le persone non si fidano abbastanza dei computer per sedervici sopra.»

«Io mi fido dei computer» gli assicurò Greta, poi si sedette. I perni e i cavi interni si adattarono al suo peso, in un rapido crescendo di schiocchi secchi di corde di chitarra. Greta rimase comodamente seduta a mezz’aria, una regina su un trono tensile di aste e di ragnatele intelligenti. Oscar ammirava le strutture tensili come chiunque altro, ma si sedette sulla seconda sedia con molto meno brio.

«Un architetto diventa famoso per gli edifici che costruisce» spiegò Bambakias. «I suoi fallimenti… be’, su quelli si può fare crescere l’edera. Ma i mobili bizzarri che non hanno successo bisogna nasconderli in ufficio.»

Un gruppo silenzioso di appartenenti alla krew tolse il tavolo da massaggio e lo sostituì con un letto d’ospedale. Il senatore si sedette sul bordo del letto, sollevando i suoi grandi e magri piedi nudi come un gigantesco uccello marino.

«Entrando ho notato un altro set di queste sedie» affermò Greta. «Ma erano solide.»

«Non ‘solide’. Rigide. Sono state spruzzate con una vernice particolare.»

«Meglio sottrarre che aggiungere» commentò Greta.

Una scintilla di interesse brillò nel volto cascante del senatore mentre la ragazza lo aiutava a infilare le scarpe e le calze. «Come ha detto di chiamarsi?»

«Greta» rispose lei in tono gentile.

«E cos’è, una psichiatra?»

«Ci è andato molto vicino. Sono una neuroscienziata.»

«È vero. Me lo aveva già detto.»

Greta si girò e rivolse a Oscar un’occhiata colma di comprensione e di pietà. Da quando aveva cambiato look, le espressioni di Greta avevano una chiarezza nuova e sorprendente — la sua fuggevole occhiata si conficcò nel cuore di Oscar come un arpione.

Oscar si protese in avanti sulla sedia di ronzanti corde di pianoforte e intrecciò le mani. «Alcott, Lorena mi ha detto che lei è un po’ irritato dagli sviluppi della situazione.»

«Irritato?» ripeté Bambakias, sollevando il mento quando la ragazza gli annodò l’ascot. «Non direi ‘irritato’. Direi ‘realistico’.»

«Be’… il realismo è una questione di opinioni.»

«Ho scatenato una crisi statale e federale. Quattrocentododici milioni di dollari di equipaggiamento militare sono stati saccheggiati da banditi anarchici e sono svaniti nelle paludi. È il peggior evento di questo tipo dall’attacco a Fort Sumter nel 1861; cosa c’è da essere irritati?»

«Ma, Al, questa non è mai stata la sua intenzione. Nessuno può darle la colpa di questi sviluppi.»

«Ma io ero lì» insistette Bambakias. «Io ero con quella gente. Sì… ho parlato con tutti loro, ho dato loro la mia parola d’onore… Ho i nastri che lo dimostrano! Guardiamo le prove un’altra volta. Dovremmo vederle insieme. Dov’è il mio amministratore di sistema? Dov’è Edgar?»

«Edgar è a Washington» rispose in tono tranquillo la ragazza che lo stava vestendo.

Il volto scavato del senatore assunse un’espressione seccata. «Ma allora devo proprio fare tutto da solo?»

«Ho seguito lo svolgimento dell’assedio» affermò Oscar. «Mi sono tenuto aggiornato sugli sviluppi.»

«Ma io ero lì!» insistette Bambakias. «Avrei potuto essere d’aiuto. Avrei potuto costruire delle barricate. Avrei potuto portare dei generatori… Ma quando il gas li ha colpiti, hanno perso la testa. È stato allora che mi sono reso conto che non era un gioco. No, noi eravamo semplicemente impazziti.»

L’ufficio piombò in un silenzio malaugurante.

«Il senatore ha passato molto tempo in rete con quella gente dell’aeronautica» spiegò loro la ragazza in tono mite. «In pratica era quasi come se fosse lì con loro.» Improvvisamente i suoi occhi si riempirono di lacrime. «Vado a trovare il suo cappello» annunciò, poi andò via a capo chino.

Arrivò un carrello per il pranzo, apparecchiato per due. Era arrivata la zuppa di pesce.

Oscar avvicinò la sedia, leggera come una piuma, e spiegò ostentatamente un tovagliolo di lino. «Questa non è una sconfitta, Al. È solo una scaramuccia. C’è ancora molto spazio sul vecchio tabellone del go. Un mandato del Senato dura sei anni.»

«Sai che vantaggio per quei poveri ragazzi! Adesso sono nei campi di prigionia! Riesci a credere che il nostro governo sia così crudele? Hanno lasciato i nostri soldati nelle mani dell’uomo che li ha gassati!» Bambakias agitò una mano in direzione dello schermo tremolante alle sue spalle. «Ho visto in che modo Huey ha manipolato l’avvenimento, come se fosse stato lui a salvarli. Quel figlio di puttana agli occhi dell’opinione pubblica è diventato il loro salvatore!»