Dewey lo guardò con preoccupazione e sorpresa. «È sicuro di stare bene, mister? Dall’orecchio le esce un mucchio di sangue.»
Oscar tossì. «Mi serve un po’ d’acqua. L’acqua basterà.» Si toccò una guancia, sentì una massa viscosa di sangue secco e abbassò lo sguardo verso la riva del fiume. Sarebbe stato bello lavarsi la testa nell’acqua fredda. Era un’idea brillante. Era assolutamente necessario, era la priorità più importante.
Incespicò attraverso i folti arbusti marroni, affondando fino alle ginocchia nel fango gelido. Trovò una pozza sgombra nell’acqua coperta di alghe e si bagnò la testa con le mani unite a coppa. Il sangue scese a cascata dai capelli. Aveva un grosso taglio sopra l’orecchio sinistro, che si annunciò con una fitta accecante e una serie di nauseanti pulsazioni. Si arrischiò a bere qualche boccata di acqua del fiume, piegato in due, fino a quando lo choc non fu passato. Poi si alzò.
A venti metri di distanza, notò un altro relitto, che fluttuava lentamente nel fiume. In un primo momento Oscar lo scambiò per un’autobotte parzialmente sommersa, ma poi si rese conto, con profondo stupore, che si trattava di un sommergibile tascabile. Il veicolo nero era crivellato da prua a poppa da una miriade di fori di mitragliatrice larghi un pollice. Si era arenato nel fango in un arcobaleno di olio.
Oscar risalì di nuovo sulla riva del fiume, sporco di fango fino alle ginocchia. Mentre tornava verso l’ambulanza, notò che il parabrezza della cabina era esploso e che molti dei frammenti erano letteralmente spruzzati di sangue secco. La strada in terra battuta, inzuppata di pioggia, era furiosamente sconvolta da impronte lasciate da numerose moto. Non c’era alcun segno dei loro rapitori. In effetti, non si vedeva anima viva.
Dall’interno dell’ambulanza fracassata si levò il ronzio sommesso della sega elettrica di Dewey. Oscar si avvicinò stancamente e guardò all’interno. Dewey aveva rinunciato al suo tentativo di segare le manette e adesso stava segando il metallo del montante della barella. Piegò l’intelaiatura metallica e vi fece passare sopra le manette.
Oscar lo aiutò a trasportare Greta alla luce del sole. Aveva le mani bluastre per le manette e i polsi erano scorticati, ma il respiro era ancora forte e regolare.
Era stata gassata fino a perdere i sensi — per due volte — ed era sopravvissuta a un incidente automobilistico e a uno scontro a fuoco. Poi era stata abbandonata in una prigione corazzata e impenetrabile. Greta aveva bisogno di un ospedale… di un ospedale attrezzato e, soprattutto, sicuro. Un ospedale sarebbe stata un’idea eccellente per entrambi.
«Dewey, quanto dista da qui Buna?»
«Buna?» chiese Dewey. «Circa trenta miglia in linea retta.»
«Ti darò trecento dollari se ci accompagni immediatamente a Buna.»
Dewey rifletté su quell’offerta. Non ci mise molto a decidere. «Saltate su» li invitò.
A una tale distanza da Buna, il telefono di Oscar era inutile. Si fermarono in una drogheria nel piccolo villaggio di Calvary, Texas, dove comprò qualche genere di primo soccorso e tentò con un telefono a gettoni locale, ma non riuscì a mettersi in contatto con il laboratorio. Non riuscì neppure a mettersi in contatto con l’albergo a Buna.
Riuscì a fare rinvenire Greta con una cauta applicazione di massaggi alle tempie e con qualche sorso di soda in lattina, ma aveva un forte mal di testa e una nausea tremenda. Dovette rimanere sdraiata e gemente sul retro del camion di Dewey, accanto al rottame di moto.
Oscar attese in un silenzio angosciato mentre le miglia passavano. Non gli era mai piaciuta l’ingannevole sonnolenza del paesaggio del Texas orientale. Pini, paludi, fiumi, paludi, un altro torrente; nulla era mai accaduto, nulla sarebbe mai accaduto. Però qualcosa di importante c’era stato. Adesso il paesaggio tedioso coperto di pini sembrava crepitare di una silenziosa minaccia.
A quattro miglia da Buna incontrarono un pazzo in una rugginosa auto a nolo. Li superò a tutta velocità. Poi l’auto si fermò con uno stridio di freni, eseguì una conversione e si affiancò rapidamente al veicolo di Dewey, suonando furiosamente.
Dewey, impegnato a masticare un gambo di canna da zucchero simile a un pietra, smise di mangiare per sputare alcune pagliuzze gialle attraverso il deflettore. «Conoscete quel tizio?» chiese.
«Funziona il fucile?» replicò Oscar.
«Accidenti, sì, il mio fucile funziona, ma per trecento dollari non uccido nessuno.»
Il loro inseguitore sporse la testa dal finestrino dell’auto e rivolse loro dei grandi cenni con il braccio. Era Kevin Hamilton.
«Accosta,» ordinò immediatamente Oscar, «è uno dei miei.»
Oscar uscì dal furgoncino. Controllò brevemente le condizioni di Greta, che era piegata in due sul pianale, in preda al mal d’auto, poi andò incontro a Kevin, che aveva spalancato la portiera e lo stava chiamando con gesti frenetici.
«Non andare a Buna!» gridò Kevin quando Oscar si avvicinò. «Il bubbone è scoppiato!»
«Anche per me è bello vederti, Kevin. Puoi aiutarmi con Greta? Mettiamola sul sedile posteriore dell’auto. È molto scossa.»
«Ve bene» rispose Kevin. Rivolse un’occhiata al camioncino. Dewey era appena sceso dal sedile del guidatore, con il fucile sotto braccio. Kevin infilò la mano sotto il sedile e tirò fuori un enorme revolver cromato.
«Calma!» esclamò Oscar. «Il ragazzo è sul mio libro paga.» Fissò l’arma con sgomento. Non aveva mai sospettato che Kevin possedesse quell’affare. Le armi da fuoco erano estremamente illegali e una fonte di infiniti guai.
Kevin nascose la pistola, senza dire un’altra parola, poi scese zoppicando dall’auto. Aiutarono Greta a uscire dal camioncino, ad attraversare la strada e a entrare sul sedile posteriore della macchina a nolo di Kevin, malconcia e puzzolente. Dewey rimase accanto al suo veicolo, masticando canna da zucchero e attendendo con pazienza.
«Ma che ci fai con quella pistola, Kevin? Abbiamo già abbastanza problemi.»
«Io sono scappato» spiegò Kevin. «Al laboratorio è avvenuto un contro colpo di stato — stanno tentando di metterci tutti fuori gioco. Io non ero disposto a rimanere lì per farmi arrestare. No, grazie. È tutta la vita che incontro i rappresentanti delle autorità propriamente costituite.»
«Va bene, lascia stare la pistola. Hai dei soldi?»
«In effetti, sì. Un mucchio di soldi. Mi sono preso la libertà di ripulire la cassa dell’albergo questa mattina.»
«Bene. Puoi dare a quel ragazzo trecento dollari? Glielo ho promessi.»
«Okay, capo.» Kevin allungò un braccio dietro il sedile del guidatore e prese una borsa di tela rigonfia. Guardò Greta, che si stava agitando sul sedile posteriore cercando inutilmente una posizione più comoda. «Dove sono le sue scarpe, dottoressa Penninger?»
«Sono nel camioncino» gemette lei. Era molto pallida.
«Lasci che me ne occupi io» affermò Kevin. «Voi due non siete in condizioni normali.» Kevin tornò zoppicando al camioncino, scambiò alcune parole cordiali con Dewey e gli passò un bel rotolo di sottili banconote americane. Poi Kevin tornò con le scarpe di Greta, avviò l’auto e si allontanò in direzione opposta a quella di Buna. Lasciarono Dewey sul ciglio della strada invaso dalle erbacce, mentre contava il denaro con un sogghigno incredulo.
Mentre guidava, Kevin esaminò uno schermo di navigazione a basso prezzo fabbricato in Cina e fissato con una ventosa nera al cruscotto spaccato. Poi Kevin abbassò cerimoniosamente il finestrino e gettò le scarpe di Greta dall’auto sul bordo della strada. «Immagino che sia giunto il momento di spiegarvi come ho fatto a trovarvi» affermò Kevin. «Dottoressa Penninger, avevo messo delle microspie nelle sue scarpe.»
Oscar assorbì quell’informazione, poi si guardò i piedi. «Hai messo delle microspie anche nelle mie scarpe?»