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Perché quell’ornamento raffigurava un piede e una gamba umani, con la gamba tesa da metà coscia al ginocchio, con il ginocchio piegato e il piede teso, come se quella gamba fosse stata raggelata un attimo prima di colpire violentemente qualcosa con un calcio.

Il piede di Joe! Il piede del mutante pazzo, Joe!

Era accaduto tanto, tantissimo tempo prima, e lui aveva dimenticato, e c’era un certo conforto nell’accorgersi di avere dimenticato qualcosa, perché lui aveva temuto di non essere capace di dimenticare.

Ma ora ricordava quella storia quasi leggendaria, dal suo remoto inizio, anche se sapeva bene che non si trattava di una leggenda, ma di una storia accaduta davvero, perché c’era stato un mutante umano di nome Joe. Si domandò che cosa fosse accaduto a quei mutanti. Apparentemente, nulla di eccezionale. C’era stato un tempo in cui erano esistiti alcuni mutanti, forse troppo pochi, e poi non ne era rimasto nessuno, e il mondo era andato avanti come se essi non fossero mai esistiti.

Be’, non proprio come se non fossero mai esistiti, perché c’era stato il mondo delle Formiche, e c’era stato Joe. Joe, questa era la storia, aveva compiuto degli esperimenti su di un formicaio. Lo aveva coperto con una cupola, e aveva riscaldato la cupola, e forse aveva fatto altre cose… cose che nessuno aveva mai saputo, all’infuori di Joe. Aveva cambiato l’ambiente delle formiche, e, in chissà quale maniera, aveva fatto germogliare in loro il seme della grandezza, e, con il trascorrere del tempo, le formiche avevano sviluppato una loro civiltà, se era possibile parlare d’intelligenza in rapporto alle formiche. Poi Joe era passato di nuovo dal formicaio, e l’aveva preso a calci, sbriciolando la cupola, devastando la collinetta, e si era allontanato, ridendo, con quella sua risata strana, stridula, un po’ folle, che gli era così caratteristica. Aveva calpestato e distrutto il formicaio e gli aveva voltato le spalle, senza più curarsene. Ma con quel calcio, aveva lanciato le formiche verso la loro vera grandezza. Costrette ad affrontare la catastrofe, le formiche non erano ritornate al loro antico modo di comportarsi, metodico, stupido, da formiche, ma avevano lottato per salvare ciò che avevano ottenuto. Come l’Era Glaciale del Pleistocene aveva lanciato il genere umano verso la grandezza, così aveva fatto il piede del mutante umano, Joe… che con un calcio aveva messo in movimento l’oscura civiltà delle Formiche.

Pensando a questo, Jenkins venne colpito da un’idea, e questa idea fece sparire la risata. Come avevano fatto a sapere, le Formiche? Come avevano potuto? Quale formica, o quali formiche, avevano avvertito o visto, in un passato così remoto, il calcio che era venuto dal nulla? Era possibile che qualche formica astronoma, guardando attraverso il suo telescopio, fosse stata testimone di tutto il succedersi degli eventi? E questo era ridicolo, certo, perché non avrebbero mai potuto esistere delle formiche astronome. Ma in quale altro modo le formiche avrebbero potuto stabilire un legame tra l’immensa forma indistinta che aveva torreggiato, per qualche momento, sopra di loro, e il vero inizio della civiltà che esse avevano costruito?

Jenkins scosse il capo. Forse si trattava di una risposta che nessuno avrebbe mai potuto conoscere. Ma le Formiche, chissà come, avevano saputo la verità, e avevano costruito sopra ogni formicaio il simbolo di quella figura mistica. Un memoriale, si domandò Jenkins, oppure un simbolo religioso? O forse qualcosa di completamente diverso, che aveva uno scopo oscuro o un significato arcano… qualcosa che solo una formica avrebbe potuto concepire e comprendere?

Si domandò, forse oziosamente, se il fatto che le Formiche avevano scoperto la verità sulla loro origine e sulla loro grandezza non fosse collegato all’altro inesplicabile fenomeno, e cioè il fatto che la Costruzione aveva risparmiato la Casa dei Webster e il territorio circostante; ma Jenkins non proseguì per questa linea di pensiero, poiché si rendeva conto che era una speculazione troppo vaga e nebulosa, e non c’era alcuna speranza di trovare una risposta.

Si addentrò vieppiù nei recessi dell’immensa Costruzione, percorrendo gli angusti sentieri che dividevano i formicai, e con i sensi più acuti del suo corpo cercò intorno a sé qualche traccia di vita, senza trovarne alcuna… non c’era vita, neppure quel barlume debolissimo, vacillante, che indicava la presenza di quei minuscoli organismi che avrebbero dovuto brulicare nel suolo.

C’erano il silenzio e il nulla, e quel silenzio e quel nulla si addensavano in una composizione d’orrore, ma Jenkins si sforzò di proseguire, pensando che certamente lui avrebbe trovato, un poco più avanti, almeno qualche debole traccia di vita. Si domandò se non avrebbe fatto bene a gridare, per attirare l’attenzione, ma la ragione gli diceva che le Formiche non avrebbero udito il suo grido, e, a parte questo, egli provava una bizzarra riluttanza all’idea di produrre qualche rumore. Come se quello fosse stato un luogo nel quale un visitatore avrebbe dovuto cercare di farsi piccolo e di procedere in maniera furtiva.

Ogni cosa era morta.

Perfino il robot che Jenkins trovò.

Giaceva al centro di uno dei sentieri, con la schiena appoggiata a un formicaio, e Jenkins lo incontrò nel momento in cui sbucò da dietro un’altra collinetta. Era immobile e privo di vita, se era possibile dire questo di un robot, e Jenkins, vedendolo, s’immobilizzò al centro del sentiero. Non c’era alcun dubbio sul fatto che fosse morto; non poteva cogliere alcun fremito di vita all’interno di quella testa di robot, e nel momento in cui egli comprese questo, gli parve che tutto il mondo si fosse fermato, come sgomento di fronte a quella rivelazione.

Perché i robot non muoiono. Si consumano, forse, o rimangono danneggiati al di là di ogni possibile riparazione, ma anche in questo caso la vita dovrebbe continuare a scorrere all’interno dei loro cervelli. Jenkins non aveva mai sentito dire che un robot fosse morto, mai in tutta la sua vita, e se questo evento fosse accaduto, certo Jenkins lo avrebbe saputo.

I robot non muoiono, ma davanti a lui c’era un robot morto, e non si trattava solo di un robot, qualcosa pareva bisbigliargli nel cervello, ma di tutti i robot che avevano servito le Formiche. Tutti i robot e tutte le formiche, e la Costruzione sorgeva ancora, vuoto simbolo di un’ambizione sbagliata, di qualche errore di calcolo di una civiltà. Qualcosa era andato male, nell’evoluzione delle formiche, esse avevano commesso qualche errore lungo la strada, e questo errore era stato forse dovuto al fatto che Joe aveva costruito una cupola? La cupola era forse diventata l’inizio e la fine delle cose, il mezzo e il fine, la ragione di vita e il mezzo di sussistenza? Le formiche avevano forse creduto di poter essere grandi solo costruendo una cupola, e che fosse necessaria una cupola, se esse avessero voluto continuare a essere grandi?

Jenkins fuggì. E, mentre lui fuggiva, una spaccatura apparve nel soffitto, lassù, in alto, lontanissimo dal suolo, e si udì un rumore strano, stridente e crepitante, mentre la spaccatura avanzava serpentina.

Jenkins attraversò correndo il buco del Muro, e continuò a fuggire, rifugiandosi sul prato. Alle sue spalle udì il tuono prodotto dal crollo di una parte del tetto. Allora si volse e guardò, mentre altre porzioni della Costruzione crollavano, e grandi macerie cadevano su quei formicai morti e desolati, rovesciando le miriadi di emblemi di quel piede umano, gli emblemi che erano stati posti alla sommità di ogni formicaio.

Jenkins si voltò di nuovo, allora, e camminò lentamente sul prato, e cominciò a salire il pendio che conduceva alle sommità della collina sulla quale sorgeva la Casa dei Webster. Quando fu sulla veranda, vide che per il momento il crollo della Costruzione era terminato. Gran parte del muro esterno era crollata, e un enorme buco si spalancava nella Costruzione sostenuta dal muro.

In quella serena giornata d’autunno, pensò Jenkins, lui assisteva all’inizio della fine. Lui era stato là, quando tutto era cominciato, ed era ancora là, per assistere alla fine. Si domandò ancora una volta quanto tempo fosse passato, e rimpianse, ma solo fuggevolmente, di non avere conservato una traccia del trascorrere dei giorni.