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HAL CLEMENT

COESISTENZA PACIFICA

(Close To Critical, 1958)

PROLOGO: INVESTIGAZIONE; ANNESSIONE

Il sole, visto da una distanza di sedici anni luce, è di poco più debole dell’ultima stella della spada di Orione, e la sua luce non avrebbe potuto contribuire di molto allo scintillìo che si era verificato nelle lenti di diamante della strana macchina. Più d’uno tra gli uomini che osservavano, comunque, ebbe la netta impressione che l’oggetto avesse dato un’ultima occhiata al sistema planetario in cui era stato fabbricato. La cosa sarebbe stata naturale per qualsiasi essere senziente e sentimentale, perché la cosa slava già scendendo verso il grande oggetto nero che si trovava a poche migliaia di miglia di distanza.

Qualsiasi pianeta ordinario sarebbe stato luminosissimo, a quella distanza, perché Altair è un’eccellente fonte di luce e in quel momento si trovava nella migliore posizione: Altair non è una stella variabile, ma ruota a una velocità sufficiente a farla appiattire in misura apprezzabile, e il pianeta si trovava in un punto della sua orbita in cui poteva ottenere il massimo beneficio dalle regioni polari, le più calde e le più luminose. Malgrado ciò, la grossa massa del pianeta era praticamente una macchia nebulosa, più o meno come la Via Lattea, che si trovava sullo sfondo. Pareva che lo splendore di Altair venisse filtrato e assorbito, non che potesse illuminare il suo pianeta.

Ma gli occhi della macchina erano stati studiati tenendo ben presente l’atmosfera di Tenebra. L’attenzione del robot si spostò quasi visibilmente, e la massa biancastra di materiale sintetico si girò lentamente. L’intelaiatura metallica si spostava a sua volta, e una fila di piccoli cilindri uscì dall’oggetto, puntando verso la destinazione. Da essi non uscì nulla di visibile, perché l’atmosfera era ancora troppo rarefatta per risplendere dal contatto con gli joni, ma le tonnellate di plastica e metallo che formavano la macchina cambiarono la loro velocità. I razzi stavano lottando contro l’attrazione già sensibile di un mondo tre volte più grande della lontana Terra, e lottarono bene, tanto che la struttura non patì alcun danno quando finalmente fu raggiunto il contatto con l’atmosfera.

Il luccichio sparì dagli occhi di diamante, quando il grande mantello gassoso del pianeta avvolse gradualmente la macchina. Stava scendendo lentamente e sicuramente, ora; avrebbe anche potuto essere impiegata la parola cautamente. Altair splendeva sempre, in alto, ma le stelle stavano scomparendo, perfino per i registratori ultrasensibili che lavoravano dietro a quelle lenti, man mano che la discesa proseguiva.

Poi ci fu un cambiamento. Fino a quel momento, l’oggetto avrebbe potuto essere un razzo di forma particolarmente strana, che iniziava le operazioni di atterraggio. Il fatto che lo scarico degli jet diventava sempre più luminoso non avrebbe potuto significare nulla di particolare: naturalmente, l’atmosfera diventava sempre più densa. Comunque, i razzi frenanti erano una cosa, ma gli ugelli un’altra: e gli ugelli non avrebbero dovuto risplendere.

Ma quelli, sì. Divennero sempre più luminosi, come se avessero voluto rabbiosamente arrestare una caduta che proseguiva malgrado i loro sforzi, e anche i cilindri cominciarono a irradiare una vaga luminescenza rossastra. Questo bastò agli operatori, che si trovavano a una grande distanza; un gruppo di lampi brillanti esplose per un istante, non dagli ugelli, ma da diversi punti dello scheletro metallico che li sosteneva. L’incastellatura si aprì subito, e la macchina cadde, senza alcun sostegno.

Solo per un istante. C’era un altro apparecchio appeso alla superficie esterna dell’oggetto, e un istante dopo lo stacco degli ugelli un enorme paracadute sbocciò sopra la massa di plastica in caduta libera. Ci sarebbe stato da attendersi che, a causa della particolare gravità del pianeta, il paracadute si fosse immediatamente rotto; ma i suoi progettisti sapevano il loro mestiere. Tenne. L’atmosfera incredibilmente densa… perfino a quell’altezza, era molto più densa di quella terrestre… gonfiò il paracadute e annullò la velocità di caduta dell’oggetto. Così, malgrado una forza di gravità di tre volte superiore a quella terrestre, la macchina toccò il suolo intatta.

Per qualche minuto dopo l’atterraggio, apparentemente non accadde nulla. Poi l’ovoide dal fondo piatto si mosse, liberandosi dall’incastellatura del paracadute, e avanzò portato da cingoli quasi invisibili, allontanandosi dal groviglio di filamenti metallici, quindi tornò a fermarsi, come per dare un’occhiata intorno.

Comunque, non stava guardando; per il momento, non era in grado di vedere. Bisognava operare delle correzioni. Perfino quella solida massa, priva di parti mobili a eccezione degli apparecchi esterni di locomozione e di guida, non poteva restare immutata, sotto la pressione esterna di circa ottocento atmosfere. Le dimensioni dell’oggetto, e dei circuiti incorporati, erano lievemente cambiate. La pausa iniziale, dopo l’atterraggio, aveva permesso agli operatori a distanza di scoprire e controllare le frequenze leggermente mutate che, in quelle condizioni, permettevano di manovrare la macchina. Gli occhi, che avevano visto così chiaramente nello spazio, dovettero essere regolati, in modo che il diverso indice di rifrazione tra il diamante e il nuovo ambiente esterno non confondesse la visione tanto da renderla inutile. Questo non prese molto tempo, dato che si trattava di un’operazione automatica, causata dalla stessa atmosfera, col suo filtrare attraverso dei minuscoli pori negli spazi di alcuni elementi delle lenti.

Una volta regolata la parte ottica, l’oscurità quasi complete non fu più un ostacolo per quegli occhi, perché gli ingranditori incorporati potevano sfruttare anche le minime tracce di radiazioni rifratte dal diamante. Molto lontano, degli occhi umani rimasero incollati agli schermi che inquadravano le immagini trasmesse dalla macchina.

Era un panorama ondulato, non troppo alieno, a prima vista. In lontananza si vedevano delle grandi colline, le cui pendici erano addolcite da quelle che avrebbero potuto essere delle foreste. Il terreno circostante era completamente ricoperto da una vegetazione erbosa, anche se la traccia visibile lasciata dallo spostamento della macchina indicava che doveva trattarsi di qualcosa di più friabile. Delle macchie di vegetazione più consistente spuntavano a intervalli irregolari, generalmente su zone di terreno sopraelevate. La scena pareva immersa nell’immobilità più assoluta: neppure il minimo spostamento della vegetazione. Però l’impianto audio della macchina trasmetteva un continuo succedersi di schianti e di scoppi. Ma a parte i rumori, il paesaggio era assolutamente statico, senza vento e senza attività animale.

La macchina guardò, pensosamente, per diversi minuti. Probabilmente coloro che la guidavano a distanza speravano che le forme di vita, spaventate dalla discesa dell’oggetto, si fossero nascoste, e che in seguito avrebbero potuto riapparire; ma se così era, per il momento essi rimasero delusi. Dopo un certo tempo, la macchina ritornò strisciando dove si trovavano i resti del paracadute, e proiettò una serie di luci sul groviglio di fili, nastri e circuiti, esaminandoli con estrema attenzione.

Nelle dieci ore seguenti la macchina esplorò meticolosamente la zona dell’atterraggio, fermandosi di quando in quando a illuminare con le sue luci qualche oggetto simile a una pianta, a volte guardandosi intorno per interi minuti senza scopo apparente, a volte emettendo suoni dalle modulazioni e dall’intensità differenti. Quest’ultima attività si verificava sempre quando la macchina si trovava in una valle, o almeno quando non si trovava sulla cima di una collina; pareva studiare le eco, per chissà quale ragione.