Le due prese d’aria — scuri e tozzi cilindri di pietra grezza, larghi un paio di metri e alti circa uno, chiusi da una grata di ferro — servivano a far uscire il vapore e il fumo dei treni che passavano nella galleria. Ci si poteva arrampicare su di essi per sedersi poi sulla grata arrugginita — con la paura che cedesse, ma soprattutto con la paura di ammettere che si aveva paura — e guardare giù, nell’oscurità assoluta, cogliendo talvolta l’esalazione fredda e morta del tunnel abbandonato, un odore che saliva e ti circondava, simile a un alito gelido e spietato. Da lì si potevano anche lanciare sassi nel buio: li sentivamo arrivare con un tonfo lontano, a malapena udibile, sul fondo del tunnel, trenta o quaranta metri più sotto. Una volta Andy e io eravamo andati lì con un po’ di giornali vecchi e con una scatola di fiammiferi: avevamo gettato nel buco i giornali arrotolati e incendiati, osservando la lenta discesa nell’oscurità di quelle spirali di fiamma sino a quando non avevano toccato il fondo della galleria.
Andy aveva undici anni, Clare dieci, io nove. Eravamo lì per una cerimonia. A quel tempo, Andy era un po’ grassottello, Clare deliziosamente normale. Io ero — come dicevano tutti — magro come un chiodo, ma probabilmente sarei diventato robusto come mio padre.
«Accidenti!» esclamò Clare. «È buio là dentro, vero?»
Era buio pesto. Ci trovavamo in piena estate e la vegetazione, bassa e alquanto intricata, cresceva veloce e rigogliosa intorno alle prese d’aria, bloccando totalmente la luce. Dovemmo lottare per farci strada e arrivare alla piccola oasi di tranquillo chiarore intorno alla presa d’aria dimenticata. Una volta arrivati lì, nella piccola caverna verde, persino la luce del sole ci parve debole e offuscata.
Clare rabbrividì e si strinse ad Andy, con una finta smorfia di terrore. «Ah, aiuto!»
Andy rise e le circondò le spalle con un braccio. «Non aver paura, sorellina.»
«Avanti, deciditi!» mi esortò lei, facendomi una boccaccia.
«Prima tu», disse Andy, porgendomi il pacchetto.
Io lo presi, estrassi una sigaretta e me la misi tra le labbra. Andy armeggiò con il fiammifero, lo accese e lo avvicinò velocemente alla sigaretta. Tirai forte, serrando gli occhi.
Inalai l’odore di zolfo, presi immediatamente a tossire, diventai di un bel color verde e poco mancò che vomitassi.
Andy e sua sorella si misero a ridere come matti mentre continuavo a tossire.
A turno, provarono anche loro a fumare, e dichiararono che era una cosa assolutamente orribile e disgustosa. Che cosa mai ci trovava la gente? Gli adulti erano proprio matti.
Andy disse che però era bello da vedere. Ci chiese se conoscessimo Casablanca, con Humphrey Bogart. Quello sì, che era un film. Si poteva forse immaginare Rick senza una sigaretta in mano o tra le labbra? (Clare e io annuimmo, tra una smorfia e l’altra. Diamine, avevo visto quel film un paio di Natali prima, no? Ma era un film dei fratelli Marx e ricordavo benissimo che non c’era nessuno chiamato Humphrey Bogart.)
Provammo ad accendere un’altra sigaretta e allora — forse per istinto — capii come fare.
Ci stavo prendendo davvero gusto! Quella seconda cicca me la godei davvero. Andy e Clare si limitarono a succhiare, tenendo il fumo in bocca, ma senza spingerlo giù nei polmoni, sin nel profondo del loro essere, senza accettarlo nella loro personale ecosfera, limitandosi a ridacchiare, superficiali e infantili.
Io, no. Io aspirai quel fumo e lo feci diventare parte di me: in quel momento, mi unii misticamente all’universo, dissi sì per sempre alle droghe per il piacere assolutamente unico che mi venne da quel pacchetto di sigarette che Andy aveva fregato a suo padre. Fu una rivelazione, un’epifania: l’improvvisa consapevolezza che un qualcosa che avevi davanti a te — fra le mani, nei polmoni, in tasca — potesse fare a pezzi il tuo cervello e poi rimetterlo insieme in modi cui tu non avevi mai pensato.
Era meglio della religione, o forse era proprio quello che la gente intendeva con il termine religione! Il punto era che funzionava! La gente diceva: «Credi in Dio», «Sii buono», «Fa’ bene a scuola», «Compra questo», «Vota per me», o cose del genere, ma niente funzionava come queste sostanze, niente, assolutamente niente, ti faceva sentire fottutamente libero come queste sostanze. Loro erano la verità. Tutto il resto era menzogna.
In quel giorno, in quel pomeriggio, nel lasso di tempo di quella seconda sigaretta, ebbe inizio la mia carriera di semidrogato. Fu proprio durante quel primo virginale assalto di tossine al cervello che cominciai a diventare quello che sono adesso. Finalmente mi si aprirono gli occhi sul mio vero essere. Verità e rivelazione. Cosa succede? Cosa accade realmente? Come cazzo funziona?
Eccola qui, la catechesi del giornalista, la frottola di chi racconta sempre la verità, che vive e si perpetua in qualunque appunto o articolo che leggi, scrivi, o soltanto immagini. COME CAZZO FUNZIONA?
Basta così.
Senza altre cerimonie, gettammo i mozziconi delle sigarette nell’oscurità della presa d’aria. Tornammo verso la casa. Andy, davanti a noi di qualche passo, ci lanciò una sfida e noi, urlando e protestando, lo inseguimmo per l’ultimo centinaio di metri, attraversando di volata il prato e il porticato dal fondo ghiaioso.
Giunti senza fiato nel salone principale, tutti dichiarammo solennemente che l’esperimento alla vecchia presa d’aria era stato un insuccesso… Ma dentro di me sapevo che non era così.
» DESPOT «
Despot è un gioco che simula la nascita e lo sviluppo di una civiltà, ed è stato ideato dalla HeadCrash Brothers, la stessa squadra che ci ha deliziato con Brits, Raj e Reich. È il loro ultimo programma, il più grande e il migliore, di una complessità bizantina, di una bellezza barocca, di un’immoralità spettacolare e in grado di provocare un’assoluta e totale dipendenza. È uscito da soli due mesi, e ci ho giocato praticamente ogni giorno, da quell’afoso lunedì mattina di agosto in cui sono uscito dal negozio di videogiochi della Virgin in Castle Street, stringendo la mia copia ancora cellofanata, e mi sono precipitato in ufficio leggendo il retro della scatola come un ragazzino degli anni ’60 con in mano l’ultimo modellino della Airfix.
Sono nel mio appartamento in Cheyne Street e sto giocando, mentre dovrei lavorare a un articolo. Il problema è che il gioco e la macchina vanno molto d’accordo; la HeadCrash ha ideato Despot in modo che sfrutti qualsiasi configurazione su cui viene installato. Il massimo rendimento si raggiunge però con un PC 386sx a 25 Mhz, con almeno 2 MB di RAM e 8 MB liberi di hard disk, più una scheda grafica S3; ovviamente può girare su qualsiasi PC, persino su un Atari 520 ST (anche se non così bene dal punto di vista grafico, né con la stessa velocità né con tutte le funzioni interattive abilitate). E altrettanto ovviamente fa le stesse cose su una macchina con caratteristiche superiori, ma si dà il caso che la sua configurazione ottimale sia esattamente quella che ho sul mio computer.
Va da sé che trattasi di pura coincidenza; non è il fato, il karma, non è nient’altro che un caso fortuito, ma, dannazione, questa sì che è fortuna! Nessuno spreco. Niente di più, niente di meno. Esattamente quello che ci vuole, la configurazione ottimale e più raffinata — il meglio che mi potesse offrire il mercato di allora al prezzo che potevo permettermi: non è passato neanche un anno ed è già quasi superato, ’sto bastardo, eppure lo sto ancora pagando — per far girare questo gioco sensazionale e incredibilmente machiavellico; è diventato subito un classico, era praticamente un anno avanti rispetto ai tempi, e forse è perfino meglio del sesso.