I cani ormai sono come impazziti e lanciano ululati acuti e disperati. Uno di essi non ha mai smesso di correre in tondo, ma continua a scivolare sul sangue. Ricarichi e spari di nuovo, uccidendo altri due foxhound; ora ne rimarranno sì e no cinque o sei che continuano a saltare contro le pareti e ad abbaiare. Quello che corre in cerchio sanguina da una zampa posteriore, ma non accenna a rallentare.
Ti volti verso il signor Persimmon, sollevi il passamontagna dalla bocca e, cercando di farti sentire sopra gli ululati e i guaiti, gli gridi: «Si stanno divertendo un sacco!» poi gli fai l’occhiolino. Ricarichi il fucile e ne fai a pezzi altri due. Eviti quello che corre in tondo perché hai deciso che ti è simpatico.
Il fumo ti fa tossire. Metti giù il fucile e tiri fuori il Marttiini dal fodero nel calzino destro. Ti avvicini al signor Persimmon, che continua a scuotere il cancelletto come meglio può. Si mette a strisciare contro la parete con un rumore stridente, fastidioso; lo tiri su di nuovo. Ha gli occhi spalancati. La faccia è coperta di sudore. Anche tu sei tutto sudato. È una serata calda.
Non hai riabbassato il fondo del passamontagna: desideri che veda la tua bocca. Gli vai molto vicino, in modo che possa guardarti soltanto con l’occhio sinistro e, sopra i sempre più deboli e rochi latrati provenienti dal recinto di fronte, gli dici: «A Teheran, nel cimitero principale, c’era una fontana rossa, una fontana di sangue in memoria dei martiri della guerra». Lo fissi e senti che tenta di dire o di urlare qualcosa, ma i rumori che gli escono dal naso sembrano lontani e soffocati. Forse sta imprecando contro di te o magari ti sta implorando, non lo capisci. «Nell’ultima fase della guerra, coloro che venivano dichiarati colpevoli di reati capitali non erano fucilati o impiccati», prosegui. «Erano obbligati a dare il loro contributo allo sforzo bellico.»
Alzi il coltello in modo che lo possa vedere. Non potrebbe spalancare gli occhi più di così.
«Li hanno dissanguati», gli spieghi.
Ti accucci di fronte a lui e gli pratichi una profonda incisione nella coscia sinistra, recidendo l’arteria. L’urlo gli esce dal naso; lui continua a scuotere la griglia. Il sangue esce con violenza, schizzando sui tuoi guanti e zampillando verso l’alto in una luccicante fontanella rosa che gli inzuppa le mutande e gli arriva persino sulla faccia, coprendola di lentiggini rossastre. Cambi la presa sul manico del coltello per incidergli l’altra gamba. Lui continua a scrollare il cancelletto, per quel che serve, ma i legacci tengono e il cancelletto non può scivolare in avanti perché ti ci sei accucciato di fronte, e lo tieni bloccato con gli stivali. Il sangue sgorga con violenza, scintillante sotto la luce dei neon. Gli corre giù per le gambe, gli scende fino ai calzoni arrotolati intorno alle caviglie e li inzuppa.
Ti alzi, allunghi una mano, prendi il fazzoletto perfettamente piegato che gli spunta dal taschino, lo apri con un solo gesto e asciughi la lama del Marttiini finché il coltello non è perfettamente pulito. Viene dalla Finlandia: ecco perché il suo nome si scrive in modo così strano. Non ci avevi mai pensato prima, però ora la sua nazionalità ti sembra particolarmente divertente, anche se in modo un poco macabro: hai finito il signor Persimmon con un coltello finnico.
Ora il sangue esce più lentamente. Lui ha ancora gli occhi spalancati, ma lo sguardo è vitreo. Ha smesso di divincolarsi, si è afflosciato, anche se respira forte. Hai l’impressione che stia piangendo, ma forse è solo l’effetto del sudore sulla faccia ormai terrea.
Sei sinceramente dispiaciuto per lui perché adesso è soltanto un uomo che sta morendo, come tanti altri; ti stringi nelle spalle e gli dici: «Su, avrebbe potuto andar peggio».
Poi ti giri, fai su la tua roba e lo lasci lì, con il sangue che esce a goccia a goccia, e la pelle che si è fatta cerea sotto l’abbronzatura.
Parte del suo sangue si è raccolto in una pozza sul cemento davanti a lui, e va a unirsi a quello che sta lentamente colando fuori della gabbia piena di cani morti o straziati.
Spegni le luci e, mentre apri la porta, tieni la Browning alzata contro la spalla; prima di uscire, controlli l’esterno con il visore notturno.
Ho voglia di piangere. Sono con Y, però lei si è portata dietro il marito. Sono venuti insieme al giornale ma, quando l’addetto alla reception mi ha chiamato, ha detto solo che lei mi stava aspettando e così sono corso per le scale come un ragazzino tutto eccitato per una promessa che sta per essere mantenuta; poi, quando me li sono visti davanti tutti e due, intenti a osservare le foto nella bacheca che espone i più recenti lavori dei nostri fotografi, sarei sprofondato. Yvonne, alta, magra, muscolosa ma slanciata, in gonna e giacca scura, camicia di seta. Capelli neri cortissimi, che lasciano scoperta la nuca in un nuovo taglio, ancora più severo del precedente, con un ciuffo sulla fronte. Lei si è voltata verso di me proprio mentre la mia faccia si allungava per la delusione e mi ha rivolto un sorriso contrito.
Anche William si è voltato; spalle larghe, una bella faccia che, quando mi vede, si apre in un gran sorriso. William, biondo quanto Yvonne è nera, fisico da campione olimpionico di canottaggio, dentatura perfetta, una stretta di mano da gorilla.
«Cameron! Che piacere! Quanto tempo che non ci vediamo! Come stai, tutto bene?»
«Bene, bene», ho risposto, rivolgendogli un sorriso il più sincero possibile e salutandolo con un cenno del capo. William è alto, oltre che grosso: mi sovrasta, e sì che io sono un po’ più di uno e ottanta. Yvonne posa le mani sulle mie spalle e mi bacia su una guancia; con i tacchi, è alta quasi quanto me. I tacchi. Lei preferisce le scarpe basse e si mette quelle con i tacchi alti soltanto perché così il suo sedere è all’altezza giusta quando la prendo da dietro. Quando le sue labbra mi sfiorano la guancia, sento il suo profumo: Cinnabar, il mio preferito. Ci siamo scambiati qualche convenevole e intanto pensavo: … e io che mi sono pure preso il pomeriggio libero.
«Bene», ha detto William, fregandosi le mani. «Dove andiamo?»
«Pensavo di fare un salto giù al Viva Mexico…» ho proposto (e per poco non aggiungevo «come al solito»), guardando mesto le labbra rosso acceso di Yvonne.
«Naa», ha replicato William con una smorfia. «Ho voglia di ostriche. Andiamo al Café Royal, che ne dici?»
«Hmm…» E pensavo: Ostriche…
«Offriamo noi», ha annunciato Yvonne, sorridendo e prendendo sottobraccio il marito.
Ho conosciuto Yvonne e William all’università, nel periodo d’oro dei nostri anni migliori, quelli passati a Stirling, quelli compresi esattamente fra la prima e la seconda vittoria della Thatcher.
Loro due frequentavano i corsi di economia. Lui veniva da Birmingham, anche se i suoi genitori sono scozzesi. Lei era di Bearsden, vicino a Glasgow. Si erano conosciuti durante la prima settimana e facevano ormai coppia fissa quando li conobbi per caso nel palazzetto dello sport, un sabato pomeriggio in cui William doveva giocare a rugby e Yvonne stava cercando un compagno per una partita a squash. Stavo aspettando da almeno mezz’ora il mio avversario — un ragazzo che frequentava con me il corso di tecniche della comunicazione — ed ero già pronto a dirigermi al bar, quando Yvonne mi propose di giocare insieme. Me le suonò. Da allora dobbiamo aver fatto almeno duecento partite, e sono riuscito a batterla esattamente sette volte, di solito se stava covando qualche malanno, o quando era ancora convalescente. Io do la colpa alla droga e al fatto che, a parte qualche seduta di sesso atletico con Yvonne di quando in quando, una partita a squash ogni due settimane è l’unica attività fisica che pratico.