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Il Caley possiede ancora una biblioteca tradizionale, dove vengono custoditi tutti gli articoli. Quando s’incomincia a lavorare a un pezzo, il primo passo è quello di procurarsi i ritagli, ed è appunto qui che vengono custoditi. Immagino che entro pochi anni tutto finirà immagazzinato in banche dati che si potranno consultare da tutto il mondo tramite modem, ma, per il momento, c’è un luogo fisico in cui bisogna recarsi se si vogliono consultare i libri più oscuri, gli schedari pre-computer e i vecchi numeri del Caledonian, sebbene questi ultimi siano già conservati su microfiches. La biblioteca del Caley occupa un unico locale cavernoso nelle viscere dell’edificio, due piani sotto l’area della reception; non ci sono finestre, non si sente il rumore del traffico né dei treni e, in realtà, è un luogo piuttosto riposante, a meno che le rotative non siano in movimento. Scambio qualche parola con Joanie, la nostra bibliotecaria, e poi mi metto al lavoro.

A parte la conferma che Ares è il dio greco della guerra, il che può essere attinente al caso oppure no, non riesco a trovare granché. Non c’è il minimo accenno a qualcosa o a qualcuno chiamato Jemmel. Mi ritrovo quindi a sfogliare il materiale che ho già scoperto su Wood, Bennet, Harrison, Aramphahal e Isaacs.

Wood e Isaacs lavoravano per la British Nuclear Fuels Ltd., Bennet per l’Ente per il controllo nucleare, Aramphahal era impiegato in qualità di esperto crittografo nel quartier generale per le Comunicazioni governative e Harrison era un uomo del ministero del Commercio e dell’Industria; di quest’ultimo si vociferava che avesse stretti legami con l’MI6, la celebre sezione dei Servizi segreti dell’esercito. Aramphahal era sceso sui binari ferroviari posti lungo il confine della sua proprietà, vicino a Gloucester, si era legato una corda attorno al collo, aveva assicurato prima un’estremità a un albero su un lato dei binari, poi se stesso a un tronco sul lato opposto, e aveva atteso che passasse l’espresso. Wood viveva a Egremont, un piccolo villaggio della Cumbria: aveva fatto il bagno in compagnia di un trapano elettrico, e non del tipo a batteria. Bennet era stato trovato nel pozzo nero di una fattoria vicino a Oxford: annegamento. Isaacs si era legato ai piedi una vecchia e pesantissima macchina da scrivere e si era gettato nel Derwentwater, mentre Harrison si era chiuso in una stanza d’albergo e aveva inghiottito due liquidi che, se combinati, reagiscono e formano quella schiuma isolante per le intercapedini dei muri: era morto soffocato. Sembrava che si conoscessero tutti, e che il loro stato di servizio fosse piuttosto oscuro: c’erano lunghi periodi vuoti in cui nessuno sapeva dove fossero stati; nessuno di loro aveva legami di amicizia con colleghi, o perlomeno, non c’era nessuno che ammettesse di essere stato loro amico.

La faccenda era estremamente sospetta; per quanto ne sapevo, alcuni giornalisti — di almeno due quotidiani londinesi — avevano cercato di scoprire se si era trattato di qualcosa di più di una serie di coincidenze, ma senza risultato. C’era stata un’interpellanza parlamentare e la polizia aveva prima avviato un’indagine e poi l’aveva insabbiata in fretta e furia; da tale indagine, comunque, non era emerso un bel niente, oppure, se qualcosa era emerso, era stato tenuto ben nascosto.

A detta del signor Archer, i cinque morti avevano una cosa in comune: il segno di un’iniezione su un braccio e/o una contusione nella parte posteriore del cranio, dov’erano stati colpiti. Di conseguenza, nessuno di essi era cosciente al momento del suicidio. Il signor Archer sosteneva inoltre di essere in possesso di copie dei rapporti forensi originali che avvaloravano le sue affermazioni, ma io — come altri miei colleghi — avevo controllato presso i distretti di polizia e con i vari coroner e non avevo scoperto niente; inoltre il fatto che l’anziano medico della Cumbria che aveva effettuato le autopsie su Isaacs, Wood e Harrison fosse morto d’infarto poco dopo l’avvio delle indagini poteva essere un’ennesima coincidenza oppure no… Comunque pure questo era impossibile da dimostrare, soprattutto perché il suo corpo, al pari degli altri cinque, era stato cremato.

Scuoto la testa, perplesso davanti a questa teoria della congiura, e mi sto chiedendo se la sensazione di fastidio che provo proprio dietro agli occhi sia l’inizio di un mal di testa, quando squilla il telefono della biblioteca. Joanie mi chiama; è per me.

«Cameron?» È Frank.

«Sì», rispondo, a denti stretti. Sarà meglio per lui che non si tratti di un altro giochetto sul controllo ortografico.

«C’è il tuo signor Archer al telefono. Devo passartelo?»

Oh, oh. «Ah, perché no?»

Si sentono parecchi clic (e penso: Merda, non posso registrare neanche questa telefonata) e poi la voce alla Stephen Hawking dice: «Signor Colley?»

«Sì, signor Archer.»

«Ho qualcos’altro per lei.»

«Che cosa?»

«Il vero nome di Jemmel mi sfugge, però conosco il nome dell’agente, il rappresentante del cliente finale.»

«Ah.»

«Si chiama Smout», mi rivela; quindi lo sillaba.

«Okay», faccio io, pensando che il nome suona vagamente familiare. «E…?»

«È uno di quelli di cui non si parla a Baghdad, ma…»

Ma la linea cade. Si sentono un paio di clic, una serie di rumori lontani analoghi ai suoni di un telefono a toni e una vaga eco, appena udibile: «…non si parla a Baghdad, ma…»

Riattacco. Provo un leggero senso di vertigine; la testa ancora gira a causa dell’alcool bevuto a pranzo, l’uccello brucia per le due seghe violente e frustranti e la mente macina le implicazioni di ciò che il signor Archer mi ha appena detto, per non parlare del forte sospetto che (anche se io non ho potuto farlo) qualcuno, da qualche parte, abbia registrato la telefonata.

Il fatto è che so chi è Smout: ho scritto un articolo su di lui. L’ostaggio dimenticato, l’uomo di cui — come ha detto il signor Archer — non si parla.

Daniel Smout è — o era — un trafficante d’armi di media levatura che ha passato gli ultimi cinque anni in prigione a Baghdad, accusato prima di spionaggio e poi incarcerato per traffico di droga. È stato condannato a morte, ma la sentenza è stata commutata in ergastolo. Il governo di Sua Maestà ha sempre dimostrato una certa riluttanza ad avere a che fare con lui; l’ultima visita di un diplomatico risale a tre anni or sono. Voci insistenti, però, lo identificano come un agente occidentale coinvolto in qualcosa di così segreto da costringere tutte le persone implicate ad agire in modo che i giornalisti (e chiunque altro, del resto) ne fossero tenuti all’oscuro; il motivo per cui è stato sbattuto dentro, quindi, è impedirgli di parlare, soprattutto dopo il fallimento dell’operazione alla quale stava lavorando.

Riassumendo: stiamo parlando di un progetto il cui nome in codice è quello del dio greco della guerra; di un progetto che coinvolge l’Iraq, un accordo molto, molto segreto, cinque uomini morti — dei quali almeno tre avevano accesso a informazioni di carattere estremamente riservato sull’industria nucleare e due addirittura al prodotto concreto di tale industria (cioè il plutonio) — e un luogo in cui si è riusciti a smarrire tanto di quel materiale bellico da far impallidire anche i più folli sogni di acquisizione di un dittatore di medio livello che vive nel Terzo Mondo e coltiva ambizioni nucleari.

La British Nuclear Fuels Ltd., il quartier generale per le Comunicazioni governative, l’Ente per il controllo nucleare, il ministero del Commercio e dell’Industria e un agente — il rappresentante del cliente finale, come lo ha definito il signor Archer — tutti a Baghdad.