Oh, porca merda!
Metto il naso in redazione giusto per far vedere la mia faccia ma, come arrivo alla scrivania, squilla il telefono. Ho un sussulto e lo afferro: è di nuovo il signor Archer. Questa volta riesco a far partire il registratore.
«Signor Colley, non posso parlare adesso. Se posso chiamarla a casa venerdì sera, spero di poterle dare qualcosa di più.»
«Come?» sbotto, passandomi una mano tra i capelli. A casa? Questa è una procedura nuova. «Va bene. Il mio numero è…»
«Conosco il suo numero. Arrivederci.»
«…Arrivederci», dico al ricevitore ormai silenzioso.
«Tutto bene?» chiede Frank, corrugando la fronte.
«Sì», rispondo, facendogli un gran sorriso, probabilmente poco convincente. «Benissimo.»
Mi ritiro di nuovo in bagno, dando la colpa a qualcosa che era nella zuppa di molluschi che ho mangiato a pranzo, e sniffo un po’ di anfe, poi faccio una passeggiata fino ai Salisbury Crags, mi siedo su un masso e rimango a guardare la città, fumandomi uno spinello e pensando: Oh, signor Archer, in che casino siamo finiti?
INIEZIONE
«7970.»
«Sì… pronto?»
«Andy, sei tu?»
«Eh? Sì. Chi parla?» La voce è lenta, assonnata.
«Come sarebbe a dire, chi parla? Sei tu che mi hai chiamato. Sono Cameron. Ti ho lasciato un messaggio sulla segreteria telefonica neanche dieci minuti fa.»
«Cameron…»
«Andy! Che diamine, sono io, Cameron, il tuo amico d’infanzia, il tuo migliore amico. Ti ricordi di me? Ehi, sveglia!» Non riesco a capire perché Andy è così addormentato. D’accordo che è mezzanotte, però Andy non è mai andato a letto prima delle due.
«…Ah, sì, Cameron. Mi sembrava di riconoscere quel numero. Come stai?»
«Bene, e tu?»
«Oh, be’, io… io… sì, sto bene. Sto bene.»
«Mi sembri fatto.»
«Be’, sai…»
«Senti, se è troppo tardi, ti richiamo in un altro momento…»
«No, no, va benissimo.»
Sono seduto nello studiolo dell’appartamento, la TV è accesa, ma ho tolto l’audio; anche il computer è acceso e sul monitor c’è la schermata riepilogativa di Despot. È venerdì notte, e dovrei essere fuori a divertirmi, però sto aspettando la telefonata del signor Archer, e poi ho paura che, se faccio qualcosa di troppo gradevole, mi venga voglia di una sigaretta, perciò questa è un’altra buona ragione per rimanere a casa a guardare la TV e a giocare al computer. Ma poi ho cominciato a pensare ad Ares, a quei cinque morti e a quell’altro che sta marcendo in una cella a Baghdad e di colpo ho pensato: Cameron, tu hai in mano qualcosa che sembra uscito dalla penna di Pearl Frotwithe, mi sono spaventato e mi è venuta voglia di sentire una voce amica. Così ho chiamato Andy. Gli dovevo una telefonata da tempo, e non c’eravamo più visti da quel fine settimana dell’estate scorsa, ma ha risposto la segreteria; lui è lassù in quell’albergo buio, a soli duecento chilometri di distanza, però la voce giunge debole e lontana. Mi sembra quasi di sentirla riecheggiare nei grandi saloni vuoti di quell’edificio freddo e silenzioso.
«Allora, cos’hai fatto di bello?» gli chiedo.
«Non molto. Sono andato un po’ a pescare. Sono andato su in collina, sai, e tu?»
«Oh, le solite cose. Una scopata di tanto in tanto. Qualche articolo. Ah, ho smesso di fumare.»
«Di nuovo?»
«No, definitivamente.»
«Bene. Scopi sempre quella tipa sposata?»
«Temo di sì», ammetto, lieto che non possa vedere la smorfia che faccio. È imbarazzante: Andy conosce Yvonne e William fin da quando eravamo tutti a Stirling, ed era molto amico di William. Anche se poi ognuno è andato per la sua strada, non voglio proprio che Andy venga a sapere di me e di Yvonne. Ho sempre paura che immagini che si tratta di lei.
«Ah… come hai detto che si chiama?»
«Non credo di avertelo mai detto», gli dico, ridendo e appoggiandomi allo schienale.
«Hai paura che lo racconti a qualcuno, eh?» ribatte, in tono divertito.
«Già. Vivo con la paura costante che la nostra enorme cerchia di amici comuni lo venga a sapere.»
«Ah. Tu però dovresti scovarne una tutta per te.»
«Eh, sì», ribatto, imitando la parlata strascicata di uno che si è appena fatto. «Dovrei proprio trovarmi una pollastrella tutta mia.»
«Non hai mai seguito i miei consigli.»
«Continua a provarci. Chissà che un giorno o l’altro…»
«Sarai mica diventato dell’altra sponda, adesso?»
«Eh?»
«Lo sai, insomma, con gli uomini.»
«Cosa? Buon Dio, no! Voglio dire…» Guardo il ricevitore che stringo in mano. «No.»
«Era solo una domanda.»
«Perché? E tu?» gli chiedo e subito mi pento, perché il mio tono sembra quasi di disapprovazione, se non addirittura omofobico.
«Naa», fa Andy. «Naa, io… lo sai… quella roba non m’interessa più.» Se ne esce con una risatina e ancora una volta mi sembra di sentirla echeggiare nell’albergo avvolto dall’oscurità. «È soltanto che, lo sai, le vecchie abitudini sono dure a morire.»
«Però muoiono, no?» gli dico.
«Credo di sì. Di solito, sì.»
«Merda», esclamo e mi chino in avanti per far partire Despot sullo schermo. Sento il bisogno di fare qualcosa; normalmente, a questo punto, starei cercando le sigarette. «Stavo pensando di fare un salto su a trovarti. Non è che ce l’hai con me, vero, Gould?»
«Sono diventato un orso, amico», dice, ridendo di nuovo. «No, vieni, vieni pure. Prima chiamami, però. Sarò felicissimo di vederti. Non vedo l’ora. È passato tanto tempo dall’ultima volta.»
«Bene. Allora verrò presto.» Muovo il mouse per controllare la situazione geopolitica della partita. «Hai poi fatto qualcosa con quella fottutissima villona?»
«Eh? Ah, la mia tana, quassù.»
«Già, la tua tana.»
«No, niente. Non è cambiato niente.»
«Hai riparato qualcuna di quelle perdite?»
«No… Oh!»
«Che c’è?»
«Ti ho detto una bugia.»
«Le hai riparate.»
«No, mi ero dimenticato: qualcosa è cambiato.»
«Cioè?»
«Be’, un paio di soffitti sono crollati.»
«Oh, oh.»
«Be’, sai, quassù è molto umido.»
«Non si è fatto male nessuno, però?»
«Male? E chi doveva farsi male? Qui ci sono solo io.»
«Già. Quindi, se decido di venire e fermarmi da te c’è un sacco di posto, ma farò meglio a portarmi un ombrello oppure un sacco a pelo impermeabile, o magari una tenda. Giusto?»
«Ma no, dai, ci sono anche camere asciutte.»
«Va bene. Non so ancora quando verrò, ma sicuramente prima della fine dell’anno.»
«Perché non vieni su, diciamo… la settimana prossima o quella dopo?»
«Hmm», rifletto. Bisogna vedere che cosa succederà con le varie storie che sto seguendo, ma, teoricamente, potrei. Ho bisogno di prendermi una vacanza. Ho bisogno di cambiar aria. «Okay. Perché no? Probabilmente potrò fermarmi soltanto un paio di giorni, ma sì. Prenotami una stanza.»
«Bene. Quando pensi di arrivare?»
«Hmm, direi giovedì o venerdì. Te lo confermo.»
«D’accordo.»
Parliamo ancora un po’, rievocando i vecchi tempi; poi lo saluto.
Metto giù il telefono e resto lì seduto davanti a Despot che va avanti da solo, ma non sto prestando molta attenzione al gioco. Sto pensando invece al mio vecchio amico, al figlio del ghiaccio, al nostro bambino prodigio, prima classico protagonista degli sfrenati anni ’80, e poi vittima.