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Sono sempre stato geloso di lui, ho sempre desiderato avere quello che aveva lui, anche quando sapevo bene di non volerlo davvero.

Andy sembrava sempre in anticipo su di me. Due anni prima che io andassi a Stirling, lui aveva già incominciato a St. Andrew’s un corso sponsorizzato dall’esercito, e quando scoppiò la guerra delle Falkland lui era già tenente dei fucilieri. Si fece una marcia forzata da San Carlos a Tumbledown, rimase ferito in un attacco abborracciato a una postazione argentina e si meritò una medaglia al valore, rispedita però indietro in seguito alla notizia che l’ufficiale a capo dell’attacco era stato promosso, invece di essere condotto davanti alla corte marziale. L’anno seguente, Andy lasciò l’esercito e cominciò a lavorare in una grossa agenzia pubblicitaria di Londra; fece carriera (fu lui a inventare lo slogan dell’IBM: «Siete maniaci della perfezione? Noi, sì» e quello della Guinness: «Ci facciamo una birra?») poi, improvvisamente, si licenziò per aprire il Gadget Shop a Covent Garden. Né Andy, né il suo socio — che aveva lavorato pure lui in un’agenzia di pubblicità — avevano la minima esperienza di vendita al dettaglio, ma possedevano un sacco di idee e molta fortuna; inoltre si servirono dei loro contatti nel mondo dei media (me, per esempio) per lanciare un’enorme campagna pubblicitaria sotto forma di articoli su se stessi e sulla loro iniziativa. Il negozio e il suo catalogo di vendita per corrispondenza si rivelarono un immediato successo. In meno di cinque anni, Andy e il suo socio aprirono altre venti filiali, fecero una modesta fortuna e poi vendettero tutto, per una somma enorme, a una grossa catena di vendita al dettaglio, un paio di mesi prima del crollo della Borsa dell’87.

Andy si prese una vacanza di sei mesi, fece il giro del mondo — sempre in prima classe — scorrazzò per gli Stati Uniti in sella a una Harley Davidson, e andò in crociera nei Caraibi a bordo di uno yacht. Stava facendo un viaggio attraverso il Sahara, quando sua sorella Clare morì. Dopo il funerale, rimase a bighellonare per qualche mese nella tenuta dei suoi, a Strathspeld, poi passò un po’ di tempo a Londra, non facendo nulla, a parte frequentare i vecchi amici e i nightclub. Dopo di che, sembrò spegnersi. Divenne più tranquillo, quindi addirittura misogino; acquistò un grosso albergo fatiscente nelle Highlands occidentali e lì si ritirò a vivere da solo, apparentemente ridotto in miseria, ma senza fare assolutamente nulla, a parte bere smodatamente, finendo quindi con l’ubriacarsi in pratica tutte le sere e diventando anche un po’ hippy, sul genere: «Cioè… Che sballo… Mi sento flippato…» Ogni tanto va a pescare con la sua barchetta, passeggia per le colline o se ne sta a letto a dormire mentre l’albergo — situato in un tranquillo, oscuro villaggio un tempo assai animato, ora invece tagliato fuori da tutto a causa di una nuova strada e della soppressione del ferry — cade silenziosamente a pezzi intorno a lui.

«Cameron! ‘Kirkton of Bourtie’.»

«Che cos’è, Frank?»

«È un piccolo villaggio vicino a Inverurie.»

«Dove?»

«Lascia perdere. Indovina cosa…»

«Mi arrendo.»

«’Kippur o Bourbon’! Ah, ah, ah!»

«Piantala, non ce la faccio più dal ridere.»

Mi sono preso il fine settimana di ferie e l’ho passato a disintossicarmi, senza toccare neppure un granello di polvere bianca, e senza bere niente di più pericoloso per l’organismo del tè forte. Questo regime ferreo ha avuto anche il vantaggio di aiutarmi a tenere sotto controllo la mia voglia di fumare. Ho giocato molto a Despot, facendo avanzare velocemente il mio livello storico fino a qualcosa che assomiglia ai prodromi di una rivoluzione industriale, ma poi i miei nobili si sono ribellati, i barbari provenienti da sud hanno sferrato un attacco insieme a quelli dell’ovest, e c’è stato un fortissimo terremoto che ha portato anche a un’epidemia. Una volta risolti tutti questi problemi, mi sono ritrovato in una situazione paragonabile a quella di Roma dopo lo scisma con l’impero d’Oriente, e con il pericolo che i barbari del sud non fossero più così tanto barbari, o che addirittura si rivelassero più civilizzati della mia gente. Questo poteva risolversi in una completa disfatta strategica. Il mio Impero si è leccato le ferite e io mi sono divertito un mondo a ordinare l’esecuzione rituale di parecchi generali. Nel frattempo, la mia tosse è molto peggiorata e credo proprio che mi verrà il raffreddore; quel maledetto del signor Archer non ha più chiamato, ma, se non altro, mi è arrivata una lettera dalla società della mia carta di credito con una bella notizia, caso più unico che raro: mi hanno innalzato il limite d’utilizzo e quindi ho un po’ più di scoperto con cui poter giostrare.

«Credi che il nostro caro Mr Major riuscirà a farla franca con il voto di Maastricht?» mi chiede Frank, mentre la sua faccia rubizza fa capolino da dietro il mio schermo, come la luna da dietro una collina.

«Probabile», ribatto. «I suoi membri dell’assemblea sono una manica di smidollati leccaculo e, anche se ci fosse un qualche pericolo, quegli stronzi dei liberal-democratici salveranno il culo ai Tories, come al solito.»

«Ti andrebbe di fare una scommessina?» chiede Frank, strizzando un occhio.

«Sul risultato?»

«Sul margine della maggioranza dello zio John.»

«Venti sterline che il margine sarà di due cifre.»

Frank riflette. Poi annuisce. «Va bene.»

Sono tornato a occuparmi dei problemi dell’industria navale, e ho intervistato alcune persone ai cantieri Rosyth, che potrebbero essere chiusi entro breve, lasciando così altri seimila lavoratori sulla strada. Molto dipende dal fatto che riescano ad aggiudicarsi il contratto di manutenzione per i sottomarini Trident.

Ho già scritto un centinaio di parole, quando squilla il telefono.

«Pronto. Parla Cameron Colley.»

«Cameron, oh, Cameron, grazie al cielo ci sei! Ero sicura di aver sbagliato di nuovo a calcolare il fuso; ne ero proprio convinta, davvero. Cameron, è assurdo, davvero, non ce la faccio proprio più. Non riesco neppure a parlargli. È impossibile. Non so perché l’ho sposato, proprio non lo so. È pazzo, è pazzo sul serio. La cosa potrebbe anche non interessarmi più di tanto, ma sta facendo ammattire anche me. Vorrei che tu gli parlassi, che gli dicessi qualcosa, davvero. Sono sicura che non ascolterebbe neppure te, però… Be’, forse potrebbe anche ascoltarti.»

«Ciao, mamma», faccio io, con voce stanca, e m’infilo una mano in tasca, dove dovrebbe trovarsi il pacchetto di sigarette.

«Cameron, che devo fare? Dimmelo tu. Dimmi cosa deve fare una poveretta con un uomo così impossibile. Giuro che sta peggiorando di giorno in giorno, davvero. Vorrei tanto che fosse una mia fissazione, ma purtroppo non lo è, giuro che non lo è. Sta peggiorando, davvero. Non sono io, è lui. Anche i miei amici mi danno ragione. Sarà…»

«Qual è il problema, mamma?» Prendo una matita posata sulla scrivania e comincio a rosicchiarla.

«Quello stupido di mio marito! Mi ascolti oppure no?»

«Sì, ma cosa…?»

«Vuole comprare una fattoria! Una fattoria! Alla sua età!»

«Cosa, un allevamento di pecore?» chiedo, visto che sta telefonando dalla Nuova Zelanda e mi sembra di capire che laggiù le pecore abbondino.

«No! Di angora… Capre o conigli, o quale che sia l’animale da cui si ricava quella roba. Cameron, la situazione sta diventando insostenibile. Lo so che non è il tuo vero padre, ma mi pare che andiate d’accordo e forse ti starà a sentire. Senti, tesoro, non potresti fare un salto qui e cercare di convincerlo a ragionare?»

«Fare un salto lì? Santo cielo, mamma, è…»

«Cameron! Mi sta facendo uscire matta!»

«Senti, mamma, cerca di calmarti…»

Comincia così l’ennesima maratona telefonica di mia madre: come al solito si lamenta — e lo fa con estrema dovizia di particolari — di una qualche nuova, paventata avventura commerciale del mio patrigno, avventura destinata, secondo lei, a ridurli sul lastrico. Bill, il mio patrigno, è un neozelandese forte e robusto, tranquillo e spiritoso, che prima vendeva macchine usate e ora è in pensione. Mia madre l’ha conosciuto tre anni fa, durante una crociera nei Caraibi. Un anno dopo è andata a vivere in Nuova Zelanda. Grazie alla pensione e agli investimenti di Bill, se la passano molto bene, ma ogni tanto a lui viene voglia di rimettersi in affari. Queste idee non si concretizzano mai, e di solito non si tratta neppure di proposte commerciali serie; capita che Bill dica qualcosa di assolutamente innocuo, tipo: «Oh, guarda, a Auckland c’è un fast-food in franchising in vendita per cinquantamila», e, immediatamente, mia madre dà per scontato che lui intenda comprarlo e rovinarsi.