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Lei continua a cianciare, mentre io scorro lentamente sul terminale i dispacci della Reuters e della Press Association per vedere cosa sta succedendo nel mondo. È una tipica reazione da giornalista, piuttosto istintiva e pienamente compatibile con i ben cadenzati «hmm» e «ahh» da bravo figlio che emetto a giusti intervalli durante il suo monologo.

Alla fine riesco a chiudere la telefonata, non prima di averla convinta che Bill non getterà tutti i loro risparmi in una qualche fattoria diroccata e che — come al solito — la soluzione sta nel parlarne con lui. Le prometto di andare a trovarli, probabilmente l’anno prossimo. Dopo qualche tentativo di salutarla — mia madre è una di quelle persone che ti fanno gli auguri, ti salutano, ti ringraziano per averle chiamate o per esserti fatto trovare quando ti hanno chiamato, ti ridicono addio e poi, improvvisamente, si lanciano in un nuovo argomento —, riesco finalmente a dirle l’ultimo «ciao» e a concludere la telefonata senza riattaccarle in faccia. Mi appoggio alla spalliera della sedia, esausto.

«Mi sembra di capire che era mammina, vero?» dice Frank, tutto gioviale, dall’altra parte del monitor.

Prima ancora che possa rispondere, il telefono squilla di nuovo. Sussulto e afferro il ricevitore, tremando all’idea che sia di nuovo lei, che abbia dimenticato di dirmi qualcosa.

«Sì?» esordisco in tono stridulo.

«Salve, questa è la voce della civiltà», risponde un’armoniosa voce dall’accento inglese.

«Come?»

«Cameron, sono Neil. Volevi parlarmi?»

«Oh, ciao, Neil.» Neil è un mio ex collega che si è trasferito a Londra per lavorare in Fleet Street quando Fleet Street non era ancora piena di banche giapponesi. Suo padre lavorava nei Servizi segreti durante la guerra di Corea, e in quel periodo ha conosciuto Sir Andrew (il nostro direttore che si sta riprendendo dall’infarto). Neil è tradizionalista fino al midollo, ma ciò non toglie che sia anche simpatico; fuma oppio e adora la Famiglia Reale, disprezza il socialismo e la Thatcher in eguai misura, e vota liberale perché la sua famiglia l’ha sempre fatto, sin dai tempi in cui i liberali si chiamavano Whigs. Va a caccia di cervi e a pesca di salmoni. Ogni anno va a sciare a Saint Moritz. Guida una Bentley S2. Il termine raffinato sembra essere stato coniato espressamente per lui. Adesso lavora, come free-lance, in un settore piuttosto vicino a quello dello spionaggio industriale, talvolta per qualche quotidiano, ma principalmente per società e industrie. «Come stai?» dico, guardando il monitor e aggrottando la fronte. Proprio in quel momento, Frank si alza e, ficcandosi la biro tra i denti, si allontana.

«Sto bene e sono molto occupato», ribatte Neil con la sua parlata un po’ strascicata. «Cosa posso fare per te?»

«Puoi dirmi che cos’hai scoperto a proposito di quei cinque tizi che sono passati a miglior vita in circostanze molto sospette fra l’86 e l’88. Sai, quei tipi che avevano tutti a che fare con Sellascale, Winfield o Atomiclandia o come diavolo si chiama adesso.»

C’è un attimo di pausa. «Ah», fa Neil e sento che si accende una sigaretta. Mi viene l’acquolina in bocca. Fortunato bastardo. «Quella vecchia questione.»

«Già», confermo, appoggiando i piedi sulla scrivania. «Quella vecchia questione che sembra un romanzo di spionaggio e per la quale nessuno ha mai trovato una spiegazione decente.»

«Non c’è niente da spiegare, intelligentone», dice lui con un sospiro. «Solo uno sfortunato susseguirsi di circostanze.»

«Suona tanto come una Poco Attendibile Lunga e Lacunosa Affermazione, no?»

Neil ride, probabilmente ripensando al codice di acronimi che avevamo ideato nell’anno in cui ci eravamo trovati a lavorare insieme. «No, è una Vera E Reale Inconfutabile Tesi… maledizione, qual era l’ultima parola?»

«Assodata», gli rivelo, sorridendo. «Non abbiamo mai trovato niente di meglio.»

«Giusto. Be’, è proprio così.»

«Sul serio?» faccio, cercando di non ridere. «Tutti ’sti tizi che, guarda caso, erano collegati alla British Nuclear Fuels Ltd., al quartier generale per le Comunicazioni governative o ai Servizi segreti dell’esercito, sono morti così, di morte violenta, nel giro di venti mesi? Stai scherzando…»

«Cameron, mi rendo conto che il tuo animo menscevico vorrebbe tanto che ci fosse dietro una cospirazione fascista assolutamente irrazionale, ma la banale verità è che tale cospirazione non esiste. O, se esiste, è molto remota, troppo remota per essere opera di un qualsiasi Servizio segreto di mia conoscenza. Non c’è mai stato il minimo indizio attendibile che sia stato qualcuno dei nostri; quelli del Mossad — gli unici in grado di portare a termine un’azione così ben riuscita senza disseminare sulla scena del delitto impermeabili con dentro scritto il nome, il grado e il numero di matricola dell’agente — non avevano moventi plausibili; lo stesso dicasi dei nostri amici di Mosca, dato che, dopo la triste fine del loro Stato socialista, gli agenti dell’ex KGB stanno praticamente facendo a gomitate per autodenunciarsi e per confessare i loro peccati, e nessuno di loro ha mai accennato a quei cinque defunti figli della Cumbria e dintorni.»

«Sei, se contiamo anche il dottore che ha effettuato l’autopsia sui tre stoccafissi della Cumbria.»

«Sia come sia…» concede Neil con un sospiro.

Sto riflettendo. La decisione che mi accingo a prendere potrebbe essere molto importante. Devo parlare a Neil del signor Archer e di Daniel Smout? Oppure devo tenere le informazioni per me? Cristo, questa storia potrebbe rivelarsi la cosa più grossa dai tempi del Watergate; un complotto — se ho capito bene — che coinvolge tutto l’Occidente, o forse soltanto il governo di Sua Maestà, o perlomeno un gruppo di persone in grado di fornire armi nucleari al nostro ex alleato nella lotta contro i cattivi Mullah — e ora nemico pubblico numero uno — Saddam Hussein e ciò mentre la guerra Iran-Iraq si stava mettendo maluccio per lui.

«Sai», riprende Neil, con un altro sospiro, «ho la terribile sensazione che mi pentirò di avertelo chiesto, ma… Che cosa ti spinge a fare simili ricerche? A meno che, ovviamente, la triste notizia di queste cinque morti non sia giunta soltanto adesso in Caledonia…»

«Be’, vedi…» annaspo, giocherellando con il cavo del telefono.

«Allora?» dice Neil, con quel suo tono sul genere: «Perché mi stai facendo perdere tempo prezioso?»

«Ho ricevuto una telefonata da una persona che afferma di sapere com’è andata; sostiene anche che ci sono almeno altri due nomi coinvolti nella vicenda.»

«E chi sarebbero?»

«Fino a ora ne conosco soltanto uno.» Faccio un respiro profondo. Farò come il signor Archer, gli darò un pezzo per volta. «Smout», gli dico. «Daniel Smout. Il nostro uomo a Baghdad.»

Neil rimane in silenzio per qualche secondo. Poi sento che esala un profondo respiro. «Smout.» Pausa. «Capisco.» Altra pausa. «Quindi», prosegue, lentamente, come se stesse riflettendo, «se l’Iraq fosse coinvolto, non è impossibile che il Mossad potesse interessarsi alla faccenda. Anche se uno dei nostri suicidi era di fede semitica…»