Sono così eccitato che finisco l’articolo sul whisky in mezz’ora.
«Bene, Frank», gli dico, infilandomi la giacca. «Io vado a Cumbernauld.»
«Ah, vuoi dire Combustibile.»
«Come?»
«Controllo ortografico: ‘Combustibile’. Ah, ah.»
«Ah, già.»
«Torni, più tardi?»
«Ne dubito.»
Faccio il giro della stanza, con il respiro che si fa veloce e profondo. Lei continua a piroettare su se stessa, seguendomi, mettendosi di fronte a me, con il corpo che luccica. Ansimo; il petto si alza e si abbassa, le mani sono tese davanti a me, i piedi stridono sulle piastrelle. Sento il cazzo che dondola tra le gambe. Lei emette un rumore — mezzo grugnito, mezzo risata — e fa un balzo verso il bagno. La afferro per una caviglia, ma il balzo si rivela una finta; lei schizza nella direzione opposta, aprendo la porta. La pelle unta d’olio mi scivola tra le dita, barcollo e rischio di cadere nella Jacuzzi, dopo aver picchiato il ginocchio contro la base piastrellata. Lei scompare, sbattendosi la porta alle spalle. Massaggio il punto dolorante, poi apro la porta di scatto, attraverso di corsa lo spogliatoio e arrivo nella stanza fiocamente illuminata. Nessun segno della sua presenza. Rimango lì in piedi, continuando a massaggiarmi il ginocchio, respirando con la bocca per fare meno rumore possibile e poterla sentire. Il letto è molto grande, ancora disfatto, le testate di mogano brillano nel debole chiarore proveniente dai punti luce nascosti dietro i mobiletti laterali che, collegati da mensole, formano un blocco unico con la testiera. Vado di fianco al letto, mi giro per lanciare un’occhiata in direzione del bagno, poi mi accuccio lentamente, sentendo il cazzo che s’infila tra le caviglie con un delizioso fremito di anticipazione. Sollevo le coperte, scivolate di lato sul pavimento, e lancio una rapida occhiata sotto il letto.
Improvvisamente percepisco un rumore dietro di me e faccio per voltarmi e alzarmi (in un lampo, capisco che si era nascosta nell’armadio dello spogliatoio), ma è troppo tardi. Mi piomba addosso, colpendomi la schiena e il fianco, togliendomi il fiato e gettandomi sul letto, dove cado a faccia in giù sulle lenzuola di raso nero, schiacciandomi dolorosamente l’uccello tra le cosce. Prima che possa fare un solo movimento, lei mi si siede sopra, a cavalcioni; le gambe agili e muscolose, unte d’olio, scivolano sui miei fianchi, mentre il bel culetto sodo mi schiaccia la parte bassa della schiena, imprigionandomi ancora di più. Mi afferra il braccio destro, lo torce finché non urlo di dolore e poi lo tira in alto, verso il collo, tenendolo bloccato lì, circa un centimetro sotto il punto in cui il dolore diventerebbe insopportabile, solo qualche centimetro sotto il punto in cui l’omero si romperebbe.
Ben mi sta. Ho voluto giocare a questo gioco con una donna che ha frequentato un corso di autodifesa femminile, che regolarmente mi straccia a squash — o con la tecnica o con la forza, dipende dall’umore in cui è — e che si allena seriamente con i pesi. Percuoto le lucide lenzuola nere con l’altra mano.
«Va bene. Hai vinto.»
Grugnisce, poi spinge in su il braccio finché non urlo di dolore. «Ho detto va bene!» urlo. «Farò tutto quello che vuoi!»
Mi lascia andare, rotola giù dalla mia schiena e si sdraia di fianco a me, ansimando e ridendo a ogni respiro, con i seni che si sollevano e si abbassano, e improvvisamente si mette a ridacchiare, facendo tremare appena il ventre piatto. Allora mi sollevo e mi getto su di lei, ma lei rotola via. Atterro sulle lenzuola. Lei tira via una gamba che è rimasta imprigionata sotto di me, si alza in piedi e resta lì a osservarmi, di fianco al letto, con le braccia lungo i fianchi. Tiene i piedi leggermente divaricati. Fisso il triangolino scuro dei peli pubici, gemendo piano.
«Devi avere pazienza», dice lei, facendo un respiro profondo e passandosi una mano tra i capelli corti. Si volta e si allontana sulla folta moquette color crema, camminando in punta di piedi come una ballerina. Arrivata davanti a un armadio a muro, si allunga per prendere qualcosa dal ripiano più alto, e io lancio un altro gemito, drammatico, osservando i muscoli dei polpacci e delle natiche che si contraggono, le fossette in fondo alla schiena che si fanno più profonde e più lunghe, mentre l’ombra dei seni danza sulle ante dell’armadio in frassino lucido e, sull’altro lato, si riflette, nuda e bella da far male, sugli specchi. È in punta di piedi, e sta cercando qualcosa a tastoni sul ripiano dell’armadio. La collinetta carnosa del suo sesso spunta scura tra le gambe, un frutto prezioso, succulento, appena intravisto. Mi lascio cadere all’indietro sul letto, incapace di sopportare oltre.
Dieci minuti dopo sono inginocchiato sul letto, piegato all’indietro, con le gambe larghe e i polsi legati alle caviglie con legacci di seta; il cazzo, così duro da farmi male, rizzato davanti a me, è assolutamente rampante, ma anche stranamente vulnerabile. Sto ansimando, mi fanno male i muscoli; basterebbe uno spiffero d’aria sul cazzo per venire. Lei intanto stringe l’ultimo, inutile, legaccio e mi scivola accanto, mi passa davanti; è così voluttuosamente magra, tonica e muscolosa, ma morbida e umida al contempo, che ormai non gemo più. Sento che mi viene da ridere, e rido, con gli occhi rivolti al soffitto, e sento il peso dell’uccello congestionato che ballonzola di qua e di là al ritmo della risata. Lei scende dal letto, prende il telecomando e annuncia che vuole guardare una soap opera intitolata Eldorado. Mi metto a urlare e lei ride mentre il Trinitron si accende con un clic e lei alza il volume per soffocare le mie urla: rimango lì, in preda al dolore che si sta facendo quasi insopportabile, con lei che se ne sta seduta nella posizione del loto, ridacchiando e facendo finta di essere molto interessata a quella soap di merda. Sono costretto a trascinarmi lentamente all’indietro, sulle ginocchia e sulle caviglie, per un metro o giù di lì, finché non arrivo ai cuscini e alla testiera dove posso appoggiare le spalle doloranti e togliere un po’ di peso da tutti i muscoli del corpo, così almeno mi pare.
Immobilizzato e costretto a sorbirmi quella stronzata, dopo cinque minuti anche il mio cazzo cede e comincia ad ammosciarsi, ma lei si gira e, veloce e leggera, lo sfiora con la punta della lingua. La imploro di succhiarmelo, lei però si volta dall’altra parte e si rimette a guardare la televisione. Mi divincolo e tiro, ma mi ha legato troppo stretto, e ora le ginocchia mi fanno davvero male. Cerco di farla ragionare. «Senti, ora mi fa veramente troppo male», le dico; lei continua a ignorarmi. Ogni tanto si limita a controllare lo stato della mia erezione, e a darmi leccate o succhiatine velocissime, ardenti e terribilmente frustranti, oppure un solo colpetto con due dita inumidite di saliva; non posso fare altro che urlare per la frustrazione, il desiderio e il dolore, tutti in eguale e immensa misura, quando, se Dio vuole, finalmente, grazie al cielo, ’sta coproduzione anglo-americana di merda finisce, parte la musica e scorrono i titoli di coda. A questo punto, però, lei passa su MTV. Non è ancora finita! ’Sta stronza, che si diverte a stuzzicarmi e a tormentarmi, si alza dal letto ed esce dalla stanza. Sono così sorpreso che non riesco neppure a parlare: me ne resto lì, con la bocca aperta e l’uccello in resta. Sono così arrabbiato che cerco sugli elementi componibili di fianco al letto un qualche oggetto da rompere per procurarmi qualcosa di tagliente con cui recidere i legacci. Ho quasi deciso per il piano di cristallo che si trova di fianco al letto dalla sua parte — piano sul quale si trova ancora un bicchiere con un dito di vino rosso —, quando lei ritorna nella stanza, con un bicchiere scintillante in una mano, una tazza fumante nell’altra e un sorrisetto divertito sulle labbra. So che cos’ha intenzione di fare e comincio a implorarla. «No, ti prego; lasciami andare, mi fanno male le braccia, le gambe, le ginocchia; non potrò mai più camminare, ti prego, ti prego!» Tutto inutile; s’inginocchia davanti a me, si porta il bicchiere alle labbra e, lanciandomi un’occhiata divertita, si fa scivolare in bocca un cubetto di ghiaccio… poi abbassa la bocca sul cazzo.