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Arriva quindi la volta del caffè bollente, ma solo per poco: non è ancora abbastanza: di nuovo il ghiaccio, poi il caffè, e poi il ghiaccio. A questo punto sto davvero piangendo, per il dolore, il desiderio e l’insopportabile frustrazione; sto piangendo e implorando, la sto supplicando di smetterla, quando, finalmente, lei sputa via l’ultimo cubetto di ghiaccio, posa bicchiere e tazza di fianco al bicchiere di vino, avanza e mi monta a cavalcioni, facendomi scivolare dentro di lei velocemente e senza difficoltà; è ancora più calda del caffè, tanto calda da scottarmi, da bruciarmi. Faccio un piccolo «Ah» di sorpresa, mentre lei si muove su e giù, mi mette le dita sulla gola e porta l’altra mano dietro di sé, a toccarmi le palle, e improvvisamente sto venendo, piangendo e singhiozzando, scosso dagli spasmi, lei s’immobilizza e sussurra: «Tesoro, tesoro». Spingo e pompo come un matto e i movimenti rendono il dolore alle giunture delle gambe e delle braccia insopportabile e gradevole al tempo stesso.

I legacci sono diventati troppo stretti per riuscire a scioglierli; è costretta a tagliarli con la lama scintillante del coltello da caccia che tiene sotto il materasso dalla sua parte, nel caso che le entrasse in casa qualche stupratore.

Rimango sdraiato, circondato dalle sue braccia, ansimante, stremato, esausto; mentre il dolore dei muscoli e delle ossa gradualmente si attenua e le lacrime sul mio viso si asciugano, lei mormora: «Com’è statò?»

«Fottutamente geniale», sussurro.

La mattina seguente arrivo al giornale di buon’ora, con il computer nuovo, tutto felice dopo la mia volata a Cumbernauld e la mia serata con Y (il mio nuovo computer supersexy non l’ha affatto impressionata; non tutti però sono maniaci del computer e, se dovessi scegliere chi tenere in grembo, se lei o lui, sceglierei lei) dopo la quale sono tornato a Cheyne Street; Y vuole che me ne vada prima che si faccia troppo tardi, perché è preoccupata che i vicini del loro residence superchic s’impiccino. Ero così stanco che, anche se morivo dalla voglia di provare il nuovo laptop e assicurarmi che Despot girasse bene (finalmente un portatile! Gioia orgasmica e straordinaria!), mi sono addormentato sul divano; a un certo punto della notte, sono riuscito a trascinarmi fino al letto e, una volta tanto, a farmi una bella nottata di sonno. Mi alzo all’alba, o poco dopo, per una volta arrivo in ufficio leggermente in anticipo e, come entro, vedo Frank davanti alla reception; sto per mostrargli il mio nuovo giocattolo, ma lui mi guarda, preoccupato, mi prende da parte, mi porta in un angolo e mi dice: «Cameron, Eddie vuole vederti. Ci sono un paio di poliziotti su da lui».

«Cosa c’è?» chiedo, ridendo. «Ancora il Fettesgate?» Fettesgate è il nome dato a un piccolo scandalo che ha coinvolto la polizia del Lothian: un gay, convinto di essere stato vittima di un sopruso, era riuscito a entrare (con imbarazzante facilità) nel quartier generale della polizia di Fettes, trovando, e fotocopiando, un sacco di materiale compromettente.

«No», risponde Frank. «Non ha niente a che fare con quello, pare. Hanno chiesto di te.»

«Di me?»

«Sì. Espressamente di te.»

«Sai chi sono?»

«No.»

«Hmm.» Conosco parecchi poliziotti, alcuni anche in posizioni importanti, come conosco avvocati, dottori, politici e funzionari in un sacco di enti pubblici. Niente per la quale. «Non riesco a immaginare perché», sbotto, stringendomi nelle spalle. «Hai idea di che si tratti?»

Frank sembra a disagio. Lancia un’occhiata in direzione del portiere, seduto dietro al bancone poco lontano da noi, e si volta per dargli la schiena. Avvicina la testa alla mia e mormora: «Be’, Morag ha sentito qualcosa di quello che si dicevano attraverso l’interfono…»

Porto una mano alla bocca e faccio una risatina. Ero sicuro che la segretaria di Eddie lo spiasse. Fino ad adesso, però, non sapevo che si confidasse con Frank.

«Cameron», dice Frank, abbassando ancora di più il tono di voce, «pare che stiano facendo indagini su alcuni omicidi.»

FIAMMA LIBERA

La Mercedes station wagon scende borbottando il vialetto, entrando nelle pozzanghere scure che si sono formate sotto gli alberi grondanti d’acqua. Si ferma vicino al cottage immerso nel buio. Non appena si spengono i fari, tu accendi il visore notturno. Lui scende dalla macchina portando un grosso borsone da viaggio in pelle e si avvia verso l’ingresso della casa. È quasi completamente calvo, di corporatura media, anche se ha la pancia e il viso piuttosto grassi. Lo osservi mentre apre la porta. Poi entra, accende la luce nell’ingresso e chiude la porta. Senti l’allarme suonare brevemente prima che lui lo disinserisca. La pioggia scende fitta, e grosse gocce pesanti cadono dalle fronde degli alberi con piccoli tonfi sordi. Si accende una luce nella cucina, sul retro del cottage.

Gli dai un paio di minuti, riponi il visore notturno e tiri fuori un paio di occhiali spessi con la montatura di metallo, quindi vai verso il porticato sul davanti e cominci a bussare con insistenza alla pesante porta di legno.

Prendi la bottiglietta e l’assorbente igienico dalla tasca, passi le alette dell’assorbente intorno alle dita, lo inzuppi con il liquido contenuto nella bottiglietta, la metti via, e tieni il tampone puzzolente ben chiuso nel pugno.

Bussi ancora alla porta, con più forza.

«Sir Rufus!» gridi, quando senti dei rumori dietro la porta. «Sir Rufus! Sono Ivor Owen, abito qui vicino.» Sei abbastanza soddisfatto del tuo rude accento gallese. «Presto, Sir Rufus. La sua macchina!»

Senti una voce dall’accento inglese che borbotta: «Cosa?!» e il catenaccio che scorre. Lasci che la porta si apra del tutto. Il signor Carter ha in mano un fucile, ma lo tiene puntato verso il basso. Non sapresti dire se ha il dito sul grilletto oppure no, però non hai scelta; ti lanci in avanti, colpendolo con un forte pugno allo stomaco. Lui se ne esce con un: «Ooof!» e si piega in due, mentre anche le ginocchia gli cedono. Il fucile gli cade di mano; ti sposti di lato e gli premi l’assorbente sulla bocca, poi ti posizioni dietro le spalle e gli passi l’altro braccio intorno al collo. Lui riesce a spingerti all’indietro contro la parete: ti cadono gli occhiali, ma non molli la presa. Ansima ancora, cerca di respirare, e l’etere fa effetto velocemente. Si affloscia e crolla a terra. Ti abbassi insieme a lui verso il pavimento, continuando a tenergli l’assorbente premuto sul viso. Si dibatte ancora una volta — un movimento molto debole — e poi rimane immobile.

Le chiavi del cottage sono nella tasca dei calzoni. Appoggi l’uomo alla parete e ti dirigi alla porta. Spegni la luce nell’ingresso, prendi il visore notturno dallo zaino e ti guardi in giro. Sembra tutto tranquillo. Chiudi la porta a chiave, però non inserisci il sistema di allarme. Ti togli i baffi e la parrucca, raccogli gli occhiali rotti dal pavimento e infili tutto nello zaino. Poi prendi il passamontagna di seta e lo infili.

Dai un’occhiata alla cucina, ma il pavimento è di ardesia, non va bene. Lo trascini in soggiorno, fai cadere altro etere sull’assorbente, che gli lasci premuto sulla faccia, poi arrotoli il tappeto. Prendi la pistola sparachiodi dallo zaino e inchiodi l’uomo al pavimento, attraverso i vestiti, bloccando in cinque o sei punti le gambe dei calzoni e le maniche di giacca e camicia contro le spesse assi di legno. È un’operazione rumorosa. Gli togli l’assorbente dalla faccia e gli apri la bocca con la sparachiodi per accertarti che non si sia ingoiato la lingua. Poi gli giri la faccia di lato.