Anche l’ispettore si mette a ridere. «No, signor Colley», ammette, tirando una boccata dalla sigaretta. «No.» Si avvicina al tavolo, si china davanti a me per spegnere il mozzicone nel posacenere e dice: «Ho collaborato agli interrogatori di Dennis Nilsen; se lo ricorda, signor Colley? Quello che ha fatto fuori quel mucchio di gente?»
Annuisco mentre l’ispettore torna alla finestra. Non mi piace come si stanno mettendo le cose.
«Giovani, un sacco di giovani, sepolti sotto il pavimento, in giardino… C’erano tanti cadaveri da fare una squadra di baseball.» Guarda fuori della finestra. Scuote la testa. «Neanche lui aveva l’aria di un assassino.»
Si apre la porta ed entra il sergente Flavell con il mio nuovo laptop. Di colpo ho un gran brutto presentimento.
Mi trovo nel bar del Café Royal; soltanto una parete mi divide dal ristorante in cui ho pranzato con Y e William la scorsa settimana. Al di sopra del cicaleccio dei clienti, sento il lontano tintinnare di stoviglie e di posate che proviene da dietro i séparé e riecheggia contro gli alti soffitti del locale, riccamente decorati. Mentre il mio amico Al è andato in bagno a fare pipì, mi trovo a fissare gli scaffali dietro al bancone del bar e cado vittima di un’illusione ottica o di qualcosa di simile, giacché le cose non sono come dovrebbero essere: vedo le bottiglie sugli scaffali davanti a me, vedo il loro riflesso nello specchio retrostante, ma non riesco a vedere me stesso! Non riesco a vedere la mia immagine riflessa!
Al ritorna, facendosi educatamente largo tra la folla, toglie il cappotto dallo sgabello e si appoggia al bancone del bar, di fianco a me, sorseggiando la sua birra.
«Aiutami, Al», gli dico, «o sto impazzendo, o sto diventando un vampiro.»
Al mi scocca un’occhiata. È più vecchio di me — sui quarantadue, credo — e ha i capelli sale e pepe con una chierica sul cocuzzolo grande come un piattino da tè; sopra il naso, un paio di cicatrici parallele suggeriscono l’idea di un uomo perennemente corrucciato, ma, in realtà, lui ride quasi sempre. È un po’ più basso di me. Fa il consulente in ingegneria e l’ho conosciuto a una di quelle stupide partite di guerra finta nei boschi che i dirigenti pensano siano così utili a forgiare lo spirito di squadra nell’azienda.
«Di che stai parlando, incredibile cretino che non sei altro?»
Accenno con la testa agli scaffali che ho di fronte. Vedo alcune persone, dietro le bottiglie, e le vedo anche se mi giro. Sono le stesse persone, quindi dovrei trovarmi in mezzo, tra loro e lo specchio dietro le bottiglie, e invece non mi vedo. Faccio un altro cenno con la testa, sperando che il movimento venga riprodotto nello specchio, ma niente.
«Guarda!» dico allora. «Guarda nello specchio!»
È uno specchio, vero? Lo studio con attenzione. Mensole di vetro, supporti di ottone. Una bottiglia di Stoly Red rivolta verso di me, con il retro che si riflette nello specchio; lo stesso dicasi per una bottiglia blu di Smirnoff, con la parte stampata dell’etichetta rivolta verso di me, mentre il retro bianco risulta visibile attraverso la bottiglia e il liquido trasparente al suo interno. Stessa cosa con la bottiglia di Bacardi di fianco. Vedo la piccola etichetta applicata sul retro della bottiglia riflettersi nello specchio, e la vedo anche attraverso la bottiglia dal davanti. Naturale che è uno specchio!
Al sposta la testa di lato, fino a che il suo mento non si trova sulla mia spalla. Guarda avanti. Prende un paio di occhiali dalla tasca della giacca e li inforca (so che non gli piace portarli sempre).
«Cosa c’è?» sbotta, spazientito. Una barista si mette di mezzo, per spillare una birra, e poi si gira verso gli specchi, fissando gli occhi al di sopra del punto in cui sto guardando; sono costretto a spostare la testa, ma non riesco a vedere niente finché la donna non se ne va.
«Cameron, stai vaneggiando?» dice Al. Si volta e mi fissa con aria seria. Guardo di nuovo verso lo specchio.
Cristo! Non riesco a vedere neppure lui!
Forse è colpa di tutti quei Southern Comfort che abbiamo bevuto per festeggiare la sconfitta di Bush e la vittoria di Clinton. Grazie al cielo, non abbiamo bevuto Budweiser come aveva suggerito Al; come aveva potuto solamente pensare di corrompere i nostri corpi con l’imitazione, fabbricata nel Regno Unito, di una birra che già all’origine non è altro che piscio frizzante (e hanno pure il coraggio di pubblicizzarla come «l’originale»! Un’altra delle grandi menzogne della pubblicità, destinata a quei poveri di spirito dell’Essex la cui materia grigia è già irrimediabilmente compromessa da anni e anni passati a leggere il Sun e a bere Skol, i bastardi!)
Indico lo scaffale con un dito e mi becco un’occhiataccia da uno dei baristi che sta passando proprio in quel momento e al quale ho rischiato d’infilare il dito in un occhio.
«Sono invisibile!» esclamo con voce roca.
«Sei ubriaco», commenta Al, tornando alla sua birra.
Una delle persone nello specchio mi sta guardando. Mi rendo conto che ho ancora il dito puntato. Mi giro, ma vedo soltanto un muro di schiene e sederi. Nessuno mi sta fissando. Mi volto di nuovo a guardare lo specchio, proprio mentre il barista che ho quasi accecato allunga una mano per prendere la bottiglia di Bacardi dallo scaffale. La sua immagine è lì, riflessa! Ancora più stupefacente!
L’uomo che mi stava osservando è sempre lì che mi scruta. E, in quel momento, intravedo, sopra la sua testa, un scorcio di muro piastrellato. Mi rigiro e guardo al di là della gente alle mie spalle; dalle finestre alte e cesellate entra ancora un po’ di luce. Nessuna traccia di muri piastrellati. Mi volto di nuovo, mentre il barista rimette la bottiglia a posto sullo scaffale. Non è ben diritta, risulta anzi leggermente spostata. Uno dei baristi più anziani le passa davanti, alza una mano, sistema la bottiglia nella posizione esatta per mantenere la simmetria, va a spillare due boccali di birra da ottanta scellini e viene dalla nostra parte. Gli lancio un’occhiataccia. Che bastardo! Poi mi ritraggo, spaventato, quando l’uomo mi si ferma proprio di fronte e posa i bicchieri sul bancone davanti a Al e a me. Fisso il mio bicchiere e mi accorgo che è vuoto, ma il barista lo sta già portando via dopo aver preso i soldi da Al, il quale sta travasando gli ultimi millilitri di birra rimasti nel bicchiere vecchio in quello nuovo.
Scuoto la testa. «No, proprio no», sospiro, alzando gli occhi al soffitto. «Non ce la faccio proprio.»
«Cosa?» dice Al, aggrottando la fronte.
«Non ce la faccio a reggere tutto questo. Oggi è stata…»
«Hai un aspetto di merda, Cameron», m’interrompe Al. Indica un punto alle mie spalle. «Guarda, ci sono due posti liberi, laggiù. Andiamo a sederci.»
«D’accordo. Prendiamo anche delle sigarette, eh?»
«No! Tu hai smesso, ricordi?»
«Sì, Al, ma è stata una giornata difficile e…»
«Tu va’ a sederti, d’accordo?»
Dimentico l’impermeabile. Lo prende Al. Ci sediamo in fondo a una delle panchette semicircolari di pelle verde, posando le birre sul tavolo ovale.
«Davvero ho un aspetto di merda?»
«Cameron, sembri proprio trombato.»
«Vaffanculo! Bell’amico che sei…»
«Dico le cose come le vedo.»
«Ho avuto una giornata traumatica», spiego, stringendomi addosso il mio Drizabone. «Sono stato torchiato dalla polizia.»
«Dolore!»
«Grazie per essere venuto a bere con me, Al», dico, guardandolo negli occhi con la sincerità degli ubriachi e dandogli un leggero pugno su un braccio.