La moquette che ricopre i gradini è folta; i miei passi non fanno rumore; arrivo in cima e mi dirigo silenziosamente verso la camera da letto principale, facendo scattare un altro sensore. La porta si apre con un cigolio quasi impercettibile.
In testa al grande letto matrimoniale si scorge un debolissimo chiarore verde. Mentre avanzo, intravedo i numeri di un orologio digitale. La luce verdastra lambisce le lenzuola candide e il volto di una persona, sola, che dorme. Mi avvicino molto lentamente, tenendo il coltello davanti a me. La osservo respirare. Tiene un braccio fuori delle coperte, pallido e nudo, penzoloni. Ha i capelli corti, neri, e il volto minuto, da maschiaccio, sopracciglia sottili e scure, naso piccolo, labbra pallide un po’ imbronciate e un mento appuntito e triangolare che ben si accompagna agli zigomi alti e marcati.
Le vado più vicino. Lei si muove impercettibilmente. Tengo il coltello in una mano e con l’altra afferro il piumino: lo strappo via di colpo, gettandolo dietro di me e scoprendo il corpo nudo e pallido. Faccio un balzo in avanti e le premo una mano sulla bocca. Lei spalanca gli occhi, cerca di allontanarmi, ma io la spingo contro il letto, sempre tenendole la mano premuta sulla bocca. Sollevo il coltello in modo che lei possa vederlo. Lei si dibatte, spalanca ancora di più gli occhi: la tengo bloccata contro le lenzuola con il mio peso e continuo a tenerle la mano guantata sulla bocca, anche se lei non fiata. Le appoggio la lama del coltello contro la gola; lei s’immobilizza.
«Un solo rumore e sei morta, capito?» dico. Sembra che non mi abbia sentito, continua a fissarmi. «Capito?» le ripeto e questa volta annuisce in fretta. «Ti ho avvisata», sibilo, togliendole la mano dalla bocca. Lei non urla.
Mi sollevo, sempre tenendole il coltello vicino alla gola. Abbasso la cerniera dei jeans. Non porto mutande, e l’uccello esce fuori, già duro. Lei mi fissa negli occhi. Deglutisce. Vedo un’arteria che le pulsa nella parte alta del collo lungo e bianco, sotto il mento. La sua mano scivola lentamente verso il lato del letto. Io la guardo e la mano si ferma. Ora ha un’espressione terrorizzata. Le appoggio la lama di nuovo contro il collo e guardo verso il bordo del materasso. Lei sta tremando. Allungo una mano sotto il materasso, sopra la traversa di legno dell’enorme letto. Sento un manico. Tiro fuori un coltello da caccia con una lama seghettata di venticinque centimetri. Faccio un debole fischio, e poi lo getto sul tappeto, verso la finestra. Lei continua a fissarmi.
«Girati», le dico. «In ginocchio, come un cane. Subito.»
Respira forte, ansimando, con la bocca aperta. Sta tremando tutta.
«Obbedisci!» le sibilo.
Si gira a pancia in giù e poi si alza, mettendosi a quattro zampe.
«La faccia sul letto», le ordino. «Le mani lassù.»
Appoggia la faccia sulle lenzuola e posa le mani davanti a sé. Prendo le manette dalla tasca e gliele faccio scattare ai polsi. Mi fermo per indossare un preservativo, poi salgo sul letto dietro di lei, appoggio il coltello sulle lenzuola, a portata di mano, le afferro i fianchi e la attiro verso di me, sopra il mio uccello.
Urla, quando le entro dentro. È bagnatissima; bastano pochi colpi e sto per venire; lei ansima, geme, urla: «Oh, sì, scopami, sì!» e poi è tutto finito. Le crollo addosso, quindi rotolo di lato e quasi mi taglio un orecchio sulla lama gelida del coltello da cucina posato sulle lenzuola.
Lei resta sdraiata su un fianco, e mi osserva, ancora ansimante, le mani bloccate dietro la schiena, con un’espressione strana e intensa sul volto. «Tutto qui?» dice, dopo un po’.
Faccio un respiro profondo. «No», rispondo.
La tiro bruscamente in ginocchio con la faccia contro le lenzuola, le allargo le natiche e le infilo un indice nell’ano, su fino a metà. Lei boccheggia. Avvicino la testa al suo culo e lascio cadere un po’ di saliva sulla nocca, nel punto in cui è stretta dall’anello di muscolo, poi spingo dentro tutto il dito. Boccheggia nuovamente. Comincio a muovere il dito dentro e fuori, sfregandole la clitoride con l’altra mano. Dopo un po’ uso due dita e quasi subito ho un’altra erezione; tolgo il primo preservativo e ne infilo un altro, gli sputo sopra e, aiutandomi con le dita, le infilo lentamente il cazzo nel retto.
Lei viene con un urlo; io non pensavo che sarei venuto, ma mi sbagliavo.
Crolliamo insieme sul letto, respirando all’unisono. Mi tiro fuori da lei. Apro le manette e restiamo abbracciati. Lei mi toglie il passamontagna.
«Dove sono le tue scarpe?» mi chiede dopo un po’, con un filo di voce.
«In cucina. Erano incrostate di fango. Non volevo sporcare dappertutto.»
Ride piano nel buio.
«Ma ero io, ad avere il controllo», dice, sopra il rumore dell’acqua che scorre, mentre m’insapona le spalle e la schiena. «Dovevo soltanto dire il tuo nome e sarebbe stata finita. Era questo l’accordo. Mi fido di te.»
«E che differenza fa?» le chiedo. «Chiunque ci avesse visti avrebbe affermato che io ero uno stupratore e che tu venivi violentata.»
«Ma noi sapevamo che non era così.»
«E sta tutto lì? Voglio dire, soltanto nel pensarlo? E se fosse stato un vero violentatore?»
«E se tu avessi sbagliato casa?»
«Ho controllato i mobili.»
«E tu eri proprio tu; ti muovevi come fai tu, parlavi come parli tu; avevi il tuo odore.»
«Però…»
«Senti, a me è piaciuto», m’interrompe, insaponandomi il fondoschiena e le natiche. «Non credo che vorrei ripeterla, ma è stata un’esperienza interessante. E tu? Che effetto ti ha fatto?»
«Ero nervosissimo… Temevo che non sarei riuscito a farmelo venir duro, anzi ne ero certissimo, specialmente perché risento ancora degli strascichi della sbronza di ieri, e poi invece… mi sono eccitato. Credo sia successo quando mi sono accorto che tu lo eri…»
«Hmm, non prima?»
«No!»
«No.»
«Insomma, mi sentivo malissimo. Mi sentivo uno stupratore.»
«Ma non lo eri.» Fa scivolare le mani tra le mie natiche, m’insapona le cosce e poi l’interno delle gambe. «Stavi facendo una cosa sulla quale ho sempre fantasticato.»
«Ah, stupendo! Dunque quel vecchio stronzo di Jamieson aveva ragione. Segretamente, ogni donna desidera essere violentata.»
Yvonne mi dà un colpetto sui polpacci. «Non essere stupido. Nessuna vuole essere violentata, ma certe hanno delle fantasie. Il controllo non è un semplice dettaglio, Cameron… Sapere che si tratta di qualcuno di cui ti puoi fidare non è un fattore secondario: fa differenza.»
«Hmm.» Sono poco convinto.
«Gli uomini come Jamieson odiano le donne, Cameron. O forse odiano le donne che non sono totalmente sottomesse agli uomini, le donne che non riescono a tenere sotto controllo.» Fa risalire le mani lungo le gambe, m’infila le dita tra le natiche, sfiorandomi l’ano e facendomi sollevare in punta di piedi; poi le sue mani tornano sulle gambe. «Forse gli uomini come lui meriterebbero che succedesse anche a loro», dice. «Di venire aggrediti e violentati, cioè; così capirebbero se gli piace o no.»
«Sì», annuisco, rabbrividendo nonostante il caldo, perché ci stiamo inoltrando su un territorio pericoloso. «Sai, con tutte quelle parrucche, le giarrettiere e le toghe ridicole; secondo te, non se lo vanno a cercare? Capisci cosa intendo?» Mi va il vapore in gola e comincio a tossire.