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Mi domando se dovrei dirle qualcosa a proposito della polizia e sul fatto che il giudice Jamieson ha subito «una grave aggressione», qualsiasi cosa significhi. Dopo la sbronza pomeridiana con Al non sento più quel gran bisogno di confidarmi che avevo prima, e non so decidere se sia giusto coinvolgere Yvonne oppure no.

Mi lava i piedi. «Oppure», procede, «Germaine Greer e Andrea Dworkin hanno ragione, e hanno ragione pure Pickles e Jamieson: tutti gli uomini sono stupratori e alle donne piace essere violentate.»

«Stronzate.»

«Hmm…»

«A me non piace che mi si faccia sentire come uno stupratore.»

«Va bene, allora non lo faremo più.»

«E l’idea che tu me l’abbia chiesto continua a sembrarmi… sconvolgente.»

Lei resta in silenzio per un po’. «L’altro giorno…» riprende (mi sta insaponando la parte anteriore delle gambe, ma da dietro), «quando sei stato costretto a guardarti tutta una puntata di Eldorado in quella posizione molto scomoda, ti è piaciuto, no?»

Sta passando le mani insaponate lungo le mie cosce.

«Be’… alla fine sì», ammetto.

«Ma se te lo avesse fatto qualcun altro…» dice piano, così piano che quasi non riesco a sentirla sopra il dolce scroscio della doccia. Mi sta insaponando le palle, palpandole con delicatezza, massaggiandole. «…Qualcuno che non conoscevi — maschio o femmina — che ti avesse legato, lasciandoti indifeso in un luogo in cui nessuno ti avrebbe potuto aiutare neanche se avessi urlato, e se ci fosse stato un grosso coltello sotto il materasso… come ti saresti sentito, allora?»

Si alza e comincia a sfregarsi contro di me, toccandomi l’uccello ancora quasi completamente moscio. Guardo attraverso il vapore e i rivoletti d’acqua che scorrono sul vetro della cabina della doccia. Intravedo il bagno fiocamente illuminato e mi domando che cosa farei se d’un tratto vedessi comparire William, con la borsa da viaggio in mano, e un’espressione del tipo: Sorpresa! Tesoro, sono qui!

«Di sasso», ammetto. «Sarei rimasto pietrificato dalla paura. Anzi, afflosciato dalla paura.»

Mi sta tirando con delicatezza l’uccello. Lui non vorrebbe; trovo veramente difficile crederlo, perché non sono del tutto convinto di volerlo neanch’io — mi sento così esausto e dolorante — ma lui sta davvero rispondendo, sta crescendo e sta diventando duro, si sta rizzando tra le sue mani insaponate che lo palpano.

Mi posa il mento sulla spalla e punta un’unghia appuntita contro la giugulare. «Voltati, schiavo», mi sibila.

«Sì, padrona.»

Dopo un’ora di sonno, Yvonne mi sveglia e mi comunica che devo andarmene. Mi giro dall’altra parte e faccio finta di dormire, ma lei strappa via il piumino e accende tutte le luci. Sono costretto a rimettermi gli abiti sporchi e fradici di sudore e ad andare in cucina, brontolando mentre lei mi prepara un caffè. Mi lamento per gli stivali bagnati e lei mi dà un paio di calze di William; le infilo e bevo il caffè, continuando a piagnucolare perché non mi lascia mai passare la notte con lei, e le dico che per una volta, solo per una volta mi piacerebbe tanto svegliarmi con lei al mattino, fare una bella colazione da persone civili, seduti sul soleggiato terrazzo fuori della camera da letto… Lei però mi ordina di sedermi, mi allaccia gli stivali, mi toglie la tazza di caffè dalle mani e mi caccia fuori dalla porta. Quindi mi avverte che ho esattamente due minuti di tempo prima che inserisca il sistema di allarme e metta i sensori delle luci di emergenza in stand by. Sono costretto a tornare indietro per la stessa strada da cui sono venuto: scavalco il muro, attraverso il bosco e il ruscello — dove questa volta mi bagno tutti e due i piedi — poi, risalendo l’argine, cado, sporcandomi ancora di fango. Riesco a inerpicarmi sull’altra sponda e a oltrepassare la siepe, dopo essermi graffiato una guancia e aver nuovamente strappato la polo; attraverso il campo a fatica, affondando nel fango sotto la pioggia battente, e arrivo alla macchina. Quando non riesco a trovare le chiavi vengo preso dal panico, ma poi mi viene in mente che, per sicurezza, le avevo messe nella tasca dei jeans chiusa con il bottone, invece che nella tasca laterale come faccio di solito. Per ultimo sono pure costretto a mettere un po’ di frasche secche sotto le ruote anteriori perché ’sta macchina del cazzo si è impantanata. Finalmente riesco a partire e a tornare a casa. Anche alla debole luce del lampione si vede benissimo il disastro che i miei abiti infangati hanno fatto sul sedile.

Sono troppo stanco per dormire, e così gioco un po’ a Despot, ma non sono concentrato e il mio Impero, dopo i disastri precedenti, si trova ancora in una situazione disperata, tanto che mi chiedo se non valga la pena di ricominciare da capo. Questo tuttavia significherebbe ritornare molto indietro, agli albori della civiltà. Con Despot, si è spesso tentati di fare uno scambio di PDV, cosa che, per chi non conosce il gioco, suona come una specie di dettaglio innocente e trascurabile, e invece non lo è affatto. In realtà, infatti, non si scambia soltanto il Punto di Vista, ma anche l’attuale Livello di Potere Dispotico; uno scambio che non è mai favorevole! Pure ammesso che si tratti di un signorotto locale, di un re, di un generale, o di un personaggio vicino al sovrano, uno scambio non è da prendere alla leggera perché, nel preciso momento in cui rinunci all’attuale Livello di Potere Dispotico, è il computer che prende il comando e lui sì, che ci sa fare. Se aspetti troppo a scambiare, se resisti troppo a lungo, vieni assassinato, ed è finita. Ti ritrovi in una caverna in compagnia di altri venti cavernicoli coperti di pulci e con la brillante idea di accendere il fuoco! Se invece scambi troppo presto e il computer prende in mano la situazione, riuscendo a fare un miracolo e a salvare il culo del Despot che hai appena abbandonato, arriva la polizia segreta che, nel cuore della notte, bussa alla porta di casa tua, ti strappa alla famiglia e ti consegna all’oblio: la macchina si dichiara immediatamente vincitrice e tu finisci comunque in quella merdosa caverna.

Per un’ora riesco a tenere a galla la civiltà, poi mi arrendo, salvo e me ne vado a letto. Ho fumato sei sigarette senza neppure accorgermene.

Sono sempre deciso ad andarmene in collina. Mi sveglio tardi, ma riposato. Telefono ad Andy e gli confermo la mia prossima visita, chiamo Eddie e mi prendo tre giorni liberi, quindi avverto la polizia (la base è a Fettes, anche se l’ispettore è tornato a Londra): mi comunicano che non possono ancora restituirmi il mio portatile. Infine, dopo aver ripulito un minimo la macchina, lascio la città. Attraverso il ponte grigio sotto una pioggia battente accompagnata da forti colpi di vento — il limite di velocità sul ponte è stato ridotto a sessanta ed è vietato il transito ai veicoli alti — con la mia 205 che sculetta sui Dunlop ogni volta che una raffica la investe.

Prendo la M90, costeggiando Perth e dirigendomi a nord sulla A9, con quel frustrante alternarsi di carreggiate a corsia singola e doppia e con quei minacciosi cartelli che avvertono che la strada è pattugliata da auto civetta; ma il bello viene dopo Dalwhinnie! La colonna sonora è fornita da Nirvana, Michelle Shocked, Crowded House e Carter USM. A mano a mano che proseguo verso ovest, la pioggia diminuisce e colgo gli ultimi sprazzi di un epico tramonto insanguinato sopra l’isola di Skye e su Kyle, con i grandi riflettori che colorano di verde le pietre scure dell’Eilean Donan Castle. Arrivo a Strome in quattro ore e venti minuti, giusto in tempo per vedere le stelle che fanno capolino nelle chiazze color porpora che si aprono tra le nuvole scure e gonfie di pioggia.