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Mi decido. Quando si è in dubbio sul da farsi, la cosa più importante è continuare a muoversi. La velocità è di vitale importanza. L’energia cinetica libera il cervello e confonde il nemico.

Trangugio il caffè bollente mentre m’infilo il cappotto; la mia sacca è posata sul bancone della reception nell’atrio dell’albergo. Andy, curvo, con gli occhi cisposi, mi osserva sbattendo le palpebre mentre addento una fetta di pane e la mando giù con il caffè. Andy sta fissando la mia sacca. Nel punto in cui s’incontrano le due cerniere, spunta fuori un calzino, simile a un’ernia bianca e molle. Apre le cerniere, infila dentro il calzino e richiude la sacca.

«Il telefono resta spesso isolato», dice con tono di scusa. «Probabilmente è stato il temporale di ieri sera.»

«Non ti preoccupare.» Guardo l’orologio. È passata da un pezzo l’ora di telefonare a Frank.

«Senti», sospira, grattandosi il mento e sbadigliando, «la polizia locale potrebbe anche voler parlare con te…»

«Lo so. Li chiamerò e comunicherò loro i miei movimenti, non ti…»

«No. Sto parlando della polizia locale.»

«Cosa? E perché?»

«Oh», fa lui con un sospiro. «La notte scorsa, quando i ragazzi se ne sono andati, c’è stato un po’ di casino là fuori. Pare che Howie e i suoi amici abbiano teso un’imboscata ai due hippy e mi sa che uno è finito all’ospedale. La polizia sta cercando Howie. In ogni caso, quando è successo, tu dormivi, ma è possibile che vogliano parlarti comunque, quindi…»

«Cristo! Io…» Non finisco la frase. Squilla il telefono. Lo afferro e urlo: «Cosa c’è?»

«Cameron, sono Frank.»

«Oh, ciao! Hai trovato qualcosa?»

«Credo di sì. Potrebbe trattarsi di un certo Jemayl Azul», dice, e sillaba il nome. Intanto io penso Jemayl… Jemmel… hmm… «Cittadino inglese», prosegue Frank. «Madre inglese, padre turco. Nato il 17.3.1949, ha studiato a Harrow, Oxford e Yale.»

«Ma lavora nella difesa o…?»

«Ha una società che si occupa di armi. Legami con i sauditi, sì, però ha venduto armi praticamente a tutti, compresi Libia, Iran e Iraq. In passato ha acquistato un sacco di piccole aziende inglesi, il più delle volte per chiuderle. La cosa è stata oggetto di una interrogazione alla Camera. Gli israeliani lo hanno accusato di aver venduto informazioni di carattere nucleare all’Iraq nel 1985. Avevi ragione sul fatto che il suo nome era comparso sul Private Eye. E non solo una volta. Ho qui i ritagli…» Si sente un altro fruscio di fogli. «Secondo il rapporto, qui, Jemmel era uno dei nomi di copertura che lui ha usato per la scalata a quelle aziende, e anche sui conti bancari. Che te ne pare?» Frank mi sembra compiaciuto.

«Brillante, Frank. Assolutamente brillante», esclamo. «Dove si trova?»

«Mi risultano indirizzi a Londra e Ginevra, e un ufficio a New York… Ma la sua base è a Jersey, nelle Channel Islands.»

«Numero di telefono?»

«Ho già controllato: non appare sull’elenco. Al recapito della società risponde una segreteria telefonica. Ma ho chiamato un mio amico a St-Helier che lavora al giornale locale e lui pensa che il tuo uomo sia a casa.»

«Bene. Bene…», dico, riflettendo. «E l’indirizzo?»

«Aspen, Hill Street, Gorey, Jersey.»

«Bene, bene…» Sto ancora riflettendo. «Frank, sei stato brillante, mi hai dato un aiuto incredibile. Potresti passarmi Eddie?»

«Cosa?» sbotta Eddie, quando ho finito.

«Da Inverness a Jersey. Su, Eddie. Ho qualcosa di grosso per le mani. Me lo pagherei io, ma la mia carta di credito è al limite.»

«Sarà meglio che sia qualcosa di buono, Cameron.»

«Eddie, potrebbe trattarsi di una cosa veramente grossa, non sto scherzando.»

«Be’, se lo dici tu, Cameron. Ma le tue spedizioni all’estero non sono mai state terribilmente fruttuose…»

«Su, Eddie, costa poco. E, in ogni caso, Jersey non è ‘all’estero’, e io sto rinunciando a un giorno di ferie.»

«E va bene. Ma in classe turistica.»

«Che vita!» borbotta Andy, caricando il mio borsone nel bagagliaio della 205.

«Già», dico, salendo in macchina. Sento che il mal di testa mi sta ritornando alla grande. «E il bello è che, agli inizi, sembra pure una cosa esotica. Poi non ci si fa più caso.»

Chiudo la portiera e tiro giù il finestrino. Non sono del tutto certo di essere in grado di guidare, ma devo farlo, se voglio arrivare a Inverness in tempo per il volo.

«Sei sicuro di sapere quello che stai facendo?» mormora Andy con un’espressione dubbiosa.

«Sempre in caccia di notizie», gli spiego, con un gran sorriso. «Ci vediamo presto.»

Arrivo all’aeroporto di Inverness in novanta minuti, sotto scrosci improvvisi di grandine portati da nuvole alte e grigie. Colonna sonora di Count Basie e risposta islamica a Pavarotti fornita dalla mole ancor più colossale di Nusrat Fateh Ali Khan, la voce di un angelo, drogato perso, udita in sogno; anche se non ho la minima idea di quello che sta cantando, spesso ho il terribile sospetto che dica qualcosa del tipo: «Ehi, facciamo la festa a Salman Rushdie, yeah, yeah, yeah».

Il biglietto è pronto al bancone. Ufficialmente sono ancora in ferie; quindi mi faccio forza e non leggo i giornali. Mi viene in mente di comprare delle sigarette, ma il mal di testa è ancora lì, in agguato dietro gli occhi, e ho paura che fumare una sigaretta mi faccia venire da vomitare. Ciò di cui ho realmente bisogno è qualcosa di origine chimica, bianco e cristallino, però non ne ho e non saprei proprio dove andare a cercarlo, qui a Inverness. Sento il bisogno di fare qualcosa, e così acquisto uno stupido videogioco tascabile da bambini e mi siedo a giocare, mentre aspetto. Il volo è in ritardo, ma di poco. Cambio a Gatwick sotto un cielo sereno e un venticello fresco; il 146 atterra a Jersey in condizioni climatiche relativamente miti. Riesco persino ad affittare una macchina con la carta di credito, il che sembra già un miracolo di per sé.

La Nova è completa di cartina della zona; guido per stradine tortuose e ordinate e, anche in quelle poche miglia, ho la sensazione che l’isola, in confronto alla Highlands occidentali, sia dannatamente pulita, meglio curata e di certo più affollata. Gorey è facile da trovare: è situata sulla costa orientale, direttamente sulla spiaggia; la cittadina è cresciuta intorno al promontorio su cui si trova quel castello che ho sempre creduto si trovasse a St-Helier. Per rintracciare Hill Street ci vuole un po’ di più, ma Aspen non può passare inosservata: una villa lunga e bianca, subito sotto la cresta di una collina bassa e coperta di alberi, circondata da muri bianchi e da ringhiere ornamentali nere, con piccoli arbusti sistemati in grossi contenitori di legno. Tetto di tegole. Notevole. Anche il suo prezzo deve essere notevole.

Ci sono alti cancelli di ferro brunito, ma sono aperti e così entro nel vialetto di mattoni rosati che porta fin davanti alla casa.

Scendo dalla macchina, suono il campanello e aspetto. Nel vialetto non ci sono altre macchine, però, attaccato alla casa, c’è un garage a due porte. Il sole si sta tuffando dietro gli alberi e si è alzata una lieve brezza che fa frusciare le foglie degli arbusti e mi spedisce un po’ di polvere nell’occhio sinistro, il quale comincia di nuovo a lacrimare. Suono ancora una volta. Guardo attraverso la buca delle lettere, ma non riesco a vedere nulla. Infilo una mano e, dall’altra parte del massiccio portone, palpo una scatola.

Dopo qualche minuto di attesa, faccio un giro intorno alla casa, sotto archi moreschi e muri bassi e bianchi, passo davanti a un campo da tennis in astroturf e a una piscina grande quasi quanto il campo da tennis, scoperta e immobile. M’inginocchio per sentire l’acqua. Tiepida.