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Andy si riprese in fretta, respirando l’ossigeno, tossendo e sputando nell’acqua calda del bagno; poi lo asciugarono, lo misero in un letto caldo e i suoi genitori rimasero a vegliarlo. Il medico temeva che avesse subito un danno cerebrale, ma Andy sembrava sveglio e intelligente come sempre, i suoi ricordi degli anni passati erano precisi sin nei minimi dettagli e, quando il medico lo aveva sottoposto ai test sulla memoria, i risultati erano stati superiori alla media. Poi, alla riapertura della scuola dopo le vacanze invernali, lui aveva ripreso ad andar bene come prima.

Era un miracolo, diceva sua madre, e il giornale locale era d’accordo. Andy e io non capimmo mai esattamente cosa fosse successo: in seguito, poi, lui non accennò mai a quel giorno in mia presenza, a meno che non fosse proprio necessario. Neppure suo padre amava parlarne, e affrontava l’argomento sminuendone l’importanza e scherzandoci sopra. A poco a poco, anche la signora Gould finì con il parlarne sempre meno.

Alla fine, sembrava che fossi rimasto soltanto io a ritornare con il pensiero a quella mattinata fredda e immobile, ricordando in sogno le urla, la mano tesa in cerca di aiuto — un aiuto che non potevo dare — e il silenzio che era seguito alla scomparsa di Andy sotto la superficie ghiacciata.

Talvolta mi capitava anche di pensare che, dopo l’incidente, lui era cambiato, anche se sapevo che, con il tempo, le persone diventavano diverse, e che tali cambiamenti avvenivano ancora più in fretta alla nostra età.

Ma, anche così, c’erano volte in cui temevo che un qualche danno ci fosse stato… Un danno non necessariamente imputabile alla mancanza d’ossigeno, bensì al risultato di quella esperienza, allo shock del viaggio nel freddo, dello scivolare sotto il grigio coperchio di ghiaccio (forse — mi sono ripetuto spesso da allora — era andata perduta la sua incoscienza infantile, la sua istintiva follia, e quindi, in fondo, era stato un bene). Da quell’episodio, però, non riuscii più a immaginare Andy impegnato a fare qualcosa di così folle e spontaneo, a sfidare il destino con aggressività e disprezzo, scatenato, ridente e a braccia spalancate come in quella corsa sul ghiaccio.

Ti sei già messo i baffi, la parrucca e gli occhiali, cui hai applicato lenti protettive scure, perché è una giornata molto luminosa. Suoni alla porta, tenendo d’occhio il vialetto per timore che arrivi qualche macchina, e intanto t’infili i guanti di pelle. Stai sudando, sei nervoso; sai che ti trovi in una posizione difficile, che stai per correre grossi rischi, per mettere a repentaglio la tua fortuna, quell’energia che deriva dal sentirsi dalla parte della ragione, a posto, senza dare troppo per scontato, senza irridere o sfidare il destino. Tutto ciò è in pericolo, perché stai rischiando oltre il consentito, e forse punti troppo forte sulla possibilità che tutto vada alla perfezione. Anche il semplice fatto di esserti spinto così lontano potrebbe aver già messo a dura prova la tua buona stella… e c’è ancora molto da fare. Comunque, in caso di un insuccesso, affronterai la sconfitta di petto, senza fuggire né lamentarti. Hai fatto molto più di quanto pensavi ti fosse concesso e quindi, in un certo senso, quello che verrà da ora in poi è tutto di guadagnato: anzi, è così già da un po’, e quindi non puoi davvero lamentarti, e non intendi farlo caso mai la fortuna decidesse di abbandonarti proprio ora.

Viene alla porta come se niente fosse: niente servitù, niente videocitofono, e questo è sufficiente a darti il via. Non hai tempo per le raffinatezze, quindi ti limiti a sferrargli un calcio nelle palle ed entri in casa mentre lui crolla, in posizione fetale, sul pavimento. Chiudi la porta, togli gli occhiali perché distorcono la vista, e gli dai un calcio in testa. Troppo piano. Gliene molli un altro — sempre troppo piano — mentre lui si trascina sul pavimento, una mano all’inguine e l’altra alla testa, e intanto emette una serie di rumori come se sputasse o soffiasse. Lo colpisci con un altro calcio.

Questa volta s’immobilizza di colpo. Non credi di averlo ucciso, né di avergli spezzato la colonna vertebrale, ma, se anche fosse successo, non puoi farci niente. Ti assicuri che non possa essere visto dalla fessura della cassetta delle lettere, coperta da una scatola sigillata, quindi ispezioni l’ingresso con lo sguardo. Un ombrello da golf. Lo prendi. Non arriva nessuno. Prosegui a passi veloci, vedi la cucina ed entri, poi tiri giù le veneziane. Trovi un coltello da pane, ma tieni anche l’ombrello. In un cassetto della cucina trovi del nastro adesivo e torni nell’ingresso. Sposti l’uomo: adesso ti trovi fra lui e la porta. Gli leghi insieme mani e polsi. Indossa un paio di calzoni sportivi dall’aria molto costosa e una camicia di seta. Mocassini morbidi di coccodrillo e calze con il monogramma. Manicure fresco. Un profumo che non riconosci. I capelli sono leggermente umidi.

Gli togli le scarpe e gli infili entrambi i calzini in bocca; anche questi sono di seta, quindi riesci a farne una palla molto piccola. Gli chiudi la bocca con il nastro adesivo, metti il rotolo di nastro in tasca e lasci lì l’uomo per andare a controllare il resto della casa; in ogni stanza in cui entri, tiri giù le veneziane. Una volta tornato in cucina, individui la porta della cantina. Al primo piano senti della musica e un rumore di acqua che corre.

Ti avvicini piano a una porta aperta. È una camera da letto, probabilmente quella padronale. Letto di ottone, enorme, forse persino placcato d’oro. Le coltri sono un po’ in disordine; oltre le finestre, schermate da tende color pastello, si vede un terrazzo, illuminato in pieno dal sole. I rumori provengono dal bagno privato della camera. Entri nella stanza, controllando la posizione degli specchi; da come sono messi, non dovrebbero rivelare la tua presenza alla persona che sta in bagno. Ti avvicini alla porta. La musica è forte. È una canzone degli Eurythmics, Sweet Dreams are Made of This. Da una presa nella parete del bagno parte un cavo elettrico. Interessante.

La voce canta insieme alla canzone, poi diventa un borbottio. Ti senti mancare il cuore. Speravi che fosse solo in casa. Sbirci dalla fessura tra la porta e lo stipite. La stanza da bagno è molto grande. In un angolo c’è una Jacuzzi incassata nel pavimento, e dentro vedi una persona giovane, che si muove sinuosa nell’acqua spumeggiante. Di razza bianca, con i capelli corti, neri. Non sapresti dire se è maschio o femmina. Le indagini che hai fatto sul signor Azul non riguardavano la sua vita sessuale.

La grossa radio portatile si trova a meno di un metro dal bordo della Jacuzzi. E ci sono almeno due metri di cavo sul pavimento.

Il giovane, o la giovane, riprende a cantare, seguendo la canzone e gettando la testa all’indietro. Probabilmente è femmina: il collo è molto liscio, senza pomo d’Adamo.

I tuoi occhi si posano di nuovo sul cavo.

Ti si secca la bocca. Che fare? Sarebbe così veloce, così facile, e semplificherebbe di molto le cose. È quasi come se il fato dicesse: «Guarda, ti sto rendendo le cose più facili. Falla finita, subito!» Chiunque sia, la persona nella vasca frequenta quest’uomo e se non sa chi è, be’, colpa sua.

Ma non sei convinto. Questo viola il tuo codice, va contro le linee di condotta che ti sei imposto fin dall’inizio. Ci devono essere regole, leggi, per ogni cosa. In fondo, persino in guerra ci sono regole. Magari il fato ti sta proponendo una sfida, ti sta sottoponendo alla prova del fuoco, ti sta offrendo una soluzione apparentemente semplice per risolvere un problema, una soluzione che, però, decreterà la tua fine. Se scegli la via più comoda, fallirai, e allora niente potrà più salvarti, né l’abilità né la determinazione né la rettitudine che possiedi, e ancora meno la fortuna, perché proprio quella ti si rivolterà contro.

La persona nella vasca sembra abbastanza rilassata. Ti avvicini al letto, posi l’ombrello e cominci a frugare nei cassetti e negli armadi a muro ai lati della testiera. Continui a lanciare occhiate in direzione della porta del bagno. I cassetti si aprono e si richiudono senza far rumore: uno dei vantaggi dell’aver scelto come vittima un ricco anziché un poveraccio.