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Trovi una pistola. Una Smith Wesson calibro 38. Carica. E una scatola con cinquanta colpi. Ti concedi un sospiro quasi impercettibile e sorridi.

Appoggi il coltello vicino all’ombrello, soppesi la pistola e la infili sotto il piumino per togliere la sicura senza far rumore. Guardi di nuovo nel cassetto. Niente silenziatore. Sarebbe stato chiedere troppo.

Però, in un altro cassetto, trovi qualcosa di ancora più utile. Resti a fissare l’armamentario che hai davanti, e un senso di euforia ti cresce dentro. Hai fatto la scelta giusta e sei stato premiato. Lanci un’occhiata in direzione dei massicci elementi tubolari che compongono la testiera dell’enorme letto e sorridi.

Prendi il cappuccio fetish dal cassetto. Si chiude con una cerniera sul retro e ha solo un alloggiamento per il naso con due piccoli fori alla base. Tiri fuori il tuo coltellino e fai due buchi per gli occhi, senza mai perdere di vista la porta del bagno.

Provi il cappuccio, lo togli di nuovo, e allarghi i buchi appena fatti. Lo rimetti, tiri su la cerniera fino a metà. Odora di sudore e di quel profumo che piace al signor Azul. Afferri un paio di manette dal cassetto e vai in bagno, puntando la pistola contro la persona immersa nella vasca.

«Jem», chiama lei, «cosa stai…?»

Decidi di usare la voce alla Michael Caine. Non sembra proprio quella di Michael Caine, ma neanche la tua, ed è questo che conta.

«Non sono il tuo bello, tesoro, e ora esci da quella vasca del cazzo, fa’ come ti dico e non ti farò del male.» Soddisfacente, e poi anche la maschera contribuisce ad alterare la voce.

Lei ti fissa a bocca aperta. Non è proprio il momento adatto perché il campanello si metta a suonare, però è quello che succede. Lei guarda oltre le tue spalle.

«Fai solo un rumore, tesoro», le mormori, «e sei storia passata. Capito?»

Il campanello d’ingresso squilla di nuovo. La canzone degli Eurythmics finisce. Metti un piede sul cavo della radio e lo trascini abilmente sulle piastrelle del bagno, staccandolo dal retro dell’apparecchio. Quasi quasi ti aspetti che la canzone seguente parta comunque, grazie alle batterie; invece la radio resta silenziosa.

La ragazza ti fissa.

La osservi. Pare tutto stranamente astratto, come se non t’interessasse davvero quello che avverrà dopo. Anche se la ragazza farà rumore, probabilmente non le sparerai, e comunque è improbabile che possa fare un rumore tale da essere udita dall’esterno; la casa è grande e, sebbene ci siano molte superfici dure e lucide sulle quali il suono potrebbe riverberare, non sei convinto che un urlo sarebbe in grado di raggiungere qualcuno che si trovasse al portone, e forse neppure in fondo alle scale o fuori delle finestre a doppi vetri che danno sul terrazzo. Senza contare, ovviamente, che potresti anche avere il tempo di colpirla, stordendola, prima che lei riesca a prendere fiato. Ma è pericoloso, potrebbe anche non funzionare, e preferiresti non dover pensare anche a questa eventualità.

Il campanello non suona una terza volta.

Prendi un accappatoio di spugna appeso dietro la porta e glielo getti. Finisce sul bordo della Jacuzzi; lei lo afferra. «Bene. Ora infilati questo.»

Ti aspetti che la ragazza si rannicchi e cerchi d’infilarsi l’accappatoio prima di uscire completamente dall’acqua, oppure che ti volti la schiena; invece lei si alza in piedi di fronte a te e indossa l’accappatoio con gesti lenti, fissandoti con un’espressione quasi provocante. Ha un bel corpo, e il tipico ciuffetto verticale di peli pubici che hanno le modelle o le ragazze che portano costumi da bagno molto sgambati.

Quando le punti la pistola alla testa, lei la piega all’indietro con un sospiro rassegnato e un po’ nervoso, ma non tenta di reagire, neppure quando la ammanetti dietro la schiena. Le metti una striscia di nastro adesivo sulla bocca, la conduci in cucina e, da lì, in cantina. Quando attraversi l’ingresso, vedi che il signor Azul si trova esattamente dove l’hai lasciato.

In cantina trovi molta corda. Le giri un pezzo di nastro intorno alle dita, bloccandogliele; poi fai sedere la ragazza sul pavimento e la leghi a un banco da lavoro di legno massiccio. Togli gli oggetti appuntiti o taglienti che si trovano sul banco, e controlli che non ci sia nulla a portata delle gambe della ragazza. Quindi te ne vai, portandoti appresso un bel po’ di corda.

Torni dal signor Azul, e lui non c’è più.

Per un istante ti senti invadere dallo sconcerto, mentre la tua fortuna vacilla e minaccia di abbandonarti; rimani lì a fissare il punto in cui lui giaceva, legato e in posizione fetale, davanti alla porta, osservi ammutolito la distesa di moquette vuota, come se fissarla servisse a qualcosa.

Poi ti volti e corri nel salone.

E infatti eccolo, sempre rannicchiato e con le mani bloccate dal nastro adesivo: ha arrancato fin lì mentre tu eri giù in cantina. Ha rovesciato un tavolino su cui era posato il telefono e, nel momento in cui entri e lo vedi, sta cercando di raddrizzare l’apparecchio.

Si contorce e abbassa il viso sui pulsanti. Picchia tre volte con il naso sui tasti, poi striscia fino alla cornetta ed emette urla soffocate da sotto il bavaglio. A quel punto, tu armi il cane della pistola; lui sente il rumore e si volta. E ti vede, appoggiato al muro: stai facendo dondolare la spina del telefono staccata.

Lo trascini al piano superiore e lo getti sul letto. Lui si dibatte, cerca di urlare. Si sta facendo buio e, prima di accendere le luci, chiudi le tende rosa pastello. Il signor Azul grida da sotto il nastro adesivo e attraverso i calzini di seta. Lo colpisci. Non sviene — è solo stordito —, ma tu riesci comunque ad assicurarlo al letto con l’altro paio di manette e con i legacci di pelle che hai trovato nel cassetto insieme al cappuccio. Sei soddisfatto: è legato ben stretto, il letto è solido e i legacci sono morbidi, ma spessi. Funzionano perfettamente. Lui si agita.

Poi prendi la corda che hai portato dalla cantina, ne misuri quattro pezzi e li tagli con il coltellino.

Gliene leghi un pezzo intorno al braccio destro, più vicino possibile all’ascella, sopra la camicia. T’inginocchi sul letto e tiri con energia finché la corda non affonda nella seta pallida. Il signor Azul lancia un urlo da sotto il bavaglio, un urlo strozzato, stridulo, angosciato.

Fai lo stesso con l’altro braccio.

Gli leghi anche le gambe, facendogli passare la corda intorno alla piega dell’inguine e tirando vigorosamente, strizzando il tessuto dei calzoni. Il signor Azul sgroppa su e giù sul letto, in una bizzarra parodia di parossismo sessuale. Ha gli occhi fuori delle orbite ed è coperto di sudore. Sta diventando tutto rosso in faccia, mentre il cuore si sforza per pompare sangue nelle arterie bloccate dalle corde.

Allora estrai dalla giacca la scatoletta di plastica e gli mostri l’ago della siringa. Lui continua a sgroppare, sta scuotendo anche la testa. Non sei sicuro che abbia capito, ma non t’importa granché. Lo pungi una volta su tutti e quattro gli arti. Questa è una raffinatezza cui hai pensato soltanto di recente e di cui sei giustamente orgoglioso. Significa che, anche se lo scoprono in tempo, cioè prima che sopravvenga la necrosi, sarà comunque Hiv-positivo.

Lo lasci lì e scendi a controllare che la donna stia bene. Le urla del signor Azul, da lontano, suonano aspre e roche.

Quando te ne vai, è il tramonto. Esci e chiudi a chiave la grande casa silenziosa. Il sole arancione arde dietro gli alberi sopra la casa, il venticello è più fresco che freddo, e profuma di fiori e di mare. Pensi che in fondo questo sarebbe un luogo piacevole, anche se un po’ noioso, in cui ritirarsi.