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E, in un certo senso, si rivela una cosa furba perché, non appena arrivo alla centrale, mi arrestano.

L’albergo è buio e silenzioso. Le cantine sono piene di cianfrusaglie che magari, un tempo, sono state anche utili, ma che ora sono coperte d’acqua, di fango o di muffa. Alcune delle travi del soffitto sono bianche, per via del marciume soffice che le ricopre. Sei al pianoterra, attraversi la sala del biliardo, la sala da ballo e un locale adibito a ripostiglio. Il tavolo da biliardo è impregnato d’acqua, il panno è tutto macchiato e le sponde spaccate. Le vecchie moto, i tavoli, le sedie e i tappeti nella grande sala sembrano giocattoli dimenticati in una casa di bambola abbandonata da tempo. La pioggia che batte piano contro le finestre è l’unico rumore. Fuori è buio pesto.

Le rampe salgono senza interruzione fino all’ultimo piano, con un andamento a spirale intorno alla maestosa tromba delle scale ormai in sfacelo. Al piano superiore, la reception è vuota e polverosa. Il bar puzza di alcolici rancidi e di fumo di sigarette stantio, la sala da pranzo vuota emana un odore di umido e di decomposizione. La cucina è fredda, vuota, e i tuoi passi rimbombano. C’è una vecchia cucina economica, alimentata da una bombola di gas, e un solo lavello. Appeso a un chiodo c’è un grembiule.

Prendi il grembiule e lo indossi.

Ai due piani seguenti ci sono le camere da letto. Anche qui è molto umido e in alcune stanze il soffitto è crollato; l’intonaco e il canniccio coprono i mobili vecchi e massicci, e sembrano una goffa imitazione dei teli antipolvere. La pioggia picchia più forte contro i vetri, il vento ha rinforzato, e sibila tra le spaccature degli infissi.

L’ultimo piano sembra un po’ meno umido e un po’ più caldo, anche se il vento e la pioggia si sentono ancora più forte che altrove.

In fondo a un corridoio buio, oltre l’uscita di sicurezza tenuta aperta con un cuneo, c’è una porta spalancata. Dà su un salottino, illuminato da quel che resta di un fuoco nel caminetto, ormai quasi spento. Ci sono un paio di ceppi appoggiati davanti al fuoco ad asciugare, e nella stanza c’è odore di pino e di fumo di sigaretta. Di fianco al caminetto c’è un vecchio recipiente per il carbone, che però contiene una latta di kerosene quasi piena.

Nel montacarichi, in un angolo della stanza, ci sono pezzi di legno di tutte le dimensioni, molti ancora umidi. Prendi il più grosso, grande più o meno come il braccio di un uomo, e, senza far rumore, attraversi il salotto in direzione della camera. Entri e ti fermi ad ascoltare la pioggia e il vento e — appena avvertibile — il respiro lento e ritmico di un uomo che dorme nel letto. Avanzi verso il letto, tenendo il pezzo di legno davanti a te.

L’uomo si muove nell’oscurità, ma è un movimento che senti più che vedere. Ti fermi e rimani immobile. Poi l’uomo nel letto comincia a russare.

La pioggia martella sui vetri. Senti l’odore di whisky e di tabacco vecchio.

Vai vicino al letto e sollevi il pezzo di legno sopra la testa.

Rimani fermo così.

In un certo senso, questa volta è diverso. Si tratta di una persona che conosci. Ma ciò non ti deve distrarre, perché non è questo il punto. Anche se sai che è importante, non puoi permettere che lo sia per te, non puoi permettere che una cosa del genere ti blocchi. Cali il pezzo di legno con tutta la tua forza.

Lo colpisci sulla testa, però non senti il rumore dell’impatto, perché nel frattempo urli, urli come se fossi tu l’uomo nel letto, come se fossi tu a essere colpito, a essere ucciso. Dalla sagoma nel letto proviene un rumore terribile, simile a un risucchio, a un gorgoglio. Sollevi il pezzo di legno e lo abbassi nuovamente, urlando più forte.

L’uomo non si muove più né emette rumori.

Accendi la torcia elettrica. C’è un sacco di sangue: rosso dove ha inzuppato le lenzuola bianche, quasi nero dove si è raccolto a formare una pozza. Ti togli il grembiule e gli copri la testa e le spalle. Poi scendi di sotto a prendere la bombola della cucina a gas.

Le lenzuola prendono fuoco velocemente: il kerosene ha la meglio sul sangue. Lasci la bombola ai piedi del letto e ti allontani a passi veloci lungo il corridoio più breve, imbocchi l’uscita di sicurezza e ti ritrovi all’esterno, nella rumorosa oscurità della notte. Corri giù per la scala antincendio di metallo che si trova sul lato cieco dell’edificio.

Arrivato in cima alla strada ti fermi e ti volti. In alto, sul tetto, si cominciano a vedere le fiamme che danzano arancioni nella notte.

Un paio di minuti più tardi, mentre ti allontani lungo la strada che costeggia il lago, ti sembra di sentire anche la bombola di gas che esplode, ma il temporale infuria e non ne sei del tutto sicuro.

Sono passati tre giorni, ma non ne sono sicuro, potrei anche sbagliarmi perché non dormo bene ho degli incubi loro credono che sia io ma non sono io, o no? Sto cominciando ad avere qualche dubbio. Ha una maschera da gorilla sulla faccia è parla con una voce da bambino tiene in mano una gigantesca siringa e io sono legato alla sedia e urlo. Non ce la faccio più. Continuano a interrogarmi, a chiedermi dov’ero che cos’ho fatto perché l’ho fatto, perché li ho fatti fuori tutti, dov’ero con chi ero e chi sto pensando di prendere in giro perché non la faccio finita e confesso e se non sono stato io, chi è stato? Sono in prigione, a Londra, a Paddington Green, il centro di massima sicurezza che usano per i Provo e sono convinti che sono così pericoloso un tale rischio per la nazione che mi hanno portato qui e mi tengono dentro sulla base della legge contro il terrorismo Gesù Cristo qualcuno di loro si deve ancora convincere del tutto di non avere a che fare con un qualche terribile gruppo eversivo collegato con l’IRA, il Movimento nazionalista gallese e gli scozzesi teste di cazzo. Mi hanno portato qui da Edimburgo quello stesso giorno, mi hanno fatto salire in tutta fretta su un furgone senza finestrini, ammanettato a un tranquillo ragazzone di Londra che si rifiutava di parlarmi ma che non parlava molto neppure con gli altri due poliziotti seduti nel retro e si limitava a guardare fisso davanti a sé. Mi è parso di viaggiare tutta la notte ci siamo fermati solo una volta a una stazione di servizio sulla M1 c’è voluto un po’ per metterci d’accordo e poi sono tornati con varie bibite in lattina panini dolcetti pasticcio di carne di maiale e cioccolatini e ci siamo messi tutti a mangiare e poi mi hanno chiesto se dovevo andare in bagno io ho detto di sì e allora loro hanno aperto la portiera e mi hanno portato nel bagno degli uomini, con due poliziotti di guardia alla porta e dei tizi che sembravano camionisti lì fuori che sbirciavano e aspettavano il loro turno dopo la mia visita privata; io volevo solo fare pipì ma non ci sono riuscito anche se il ragazzone non guardava, solo averlo lì di fianco ammanettato a me m’inibiva e così hanno controllato tutti i cubicoli e mi hanno tolto le manette però ho dovuto lasciare la porta socchiusa e poi siamo usciti e allora ho visto le altre macchine della polizia Cristo! Una Range Rover e pure una Senator — cazzo sono proprio un VIP! — e poi di nuovo a bordo del furgone e via verso Londra dove comincia l’interrogatorio. Si concentrano sull’assassinio di Sir Rufus per adesso, perché hanno trovato un biglietto un fottuto biglietto da visita nei boschi vicino al cottage bruciato; non mio — quello sarebbe stato troppo ovvio — ma un biglietto di un tizio che conosco di Jane’s Defence Weekly con degli appunti scarabocchiati dietro:

CTRL + ALT O = PDV CAMB

SHFT + ALT = CHN DI CMND ZOOM (SALTA)

LATTE FORM PANE SCHIUMA BARBA

È la tua scrittura? mi chiedono e lo è, certo che lo è, quelli sono codici di controllo di Despot quando il mouse dà i numeri e poi c’è la lista della spesa. Mi pare di ricordare vagamente di aver annotato i codici mesi fa e poi di aver perso il pezzo di carta su cui li avevo scritti. Fisso il biglietto tutto sgualcito e sporco di fango, sigillato in una bustina di plastica come quelle che si usano per le dosi, riconosco la mia scrittura e sento che mi si secca ancora di più la bocca, riesco solo a balbettare qualcosa del tipo sì, sembrerebbe la mia scrittura ma, voglio dire, chiunque potrebbe averlo preso, insomma… Ma loro hanno un’aria piuttosto soddisfatta e le domande continuano.