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«Non hai un secondo lavoro, vero, Cameron?» dice Frank, aggrottando le bianche sopracciglia cespugliose.

«Come?» ribatto, sistemando la giacca sulla spalliera della sedia.

«Non è che hai un secondo lavoro e questa talpa è soltanto una scusa per allontanarti dall’ufficio, eh? È così?» chiede Frank, cercando di mantenere un’espressione innocente. La sua biro continua a battere a lato del monitor.

Afferro la penna e la allontano con delicatezza, spingendo Frank verso la sua sedia. «Frank…» dico. «Con la fantasia che ti ritrovi dovresti lavorare per il Sun.»

Tira su con il naso, offeso, e si risiede. Passo in rassegna la E-mail e scorro i dispacci di agenzia, poi m’interrompo, mi alzo e guardo Frank, nascosto dal terminale, che se ne sta con le dita affusolate posate sulla tastiera, ridacchiando per qualcosa che ha visto sullo schermo.

«Che cos’hai detto a Iain Garnet a proposito di questa cosiddetta talpa?»

«Lo sapevi», replica Frank con aria maliziosa, «che il controllo ortografico per ‘Yetts o’Muckart’ propone ‘Yeti Offuscato’?» Ridendo, mi lancia un’occhiata, poi si fa serio. «Come hai detto?»

«Hai sentito benissimo.»

«Hai detto Iain?» Una pausa. «Lo hai visto laggiù, oggi? Come sta?»

«Allora, che gli hai detto di ’sta talpa?» Stacco l’appunto e glielo sventolo davanti al naso.

Lui assume un’espressione innocente. «Perché, c’era qualcosa che non dovevo rivelargli? Be’, non lo so, cosa gli ho detto», si difende. «L’altro giorno gli ho parlato per telefono. Deve essere venuto fuori per caso nella conversazione. Mi dispiace molto.»

Sto per rispondergli, quando suona il telefono della linea esterna.

Frank sorride e mi punta contro la biro. «Potrebbe essere il tuo signor Archer.»

Mi siedo e sollevo il ricevitore. La comunicazione è pessima.

«Signor Colley?» La voce ha un che di metallico, come se fosse stata filtrata con un sintetizzatore. Non ho il minimo dubbio che si tratti del signor Archer, ma potrebbe anche essere Stephen Hawking. Accendo il registratore, m’infilo l’auricolare nell’orecchio e collego il microfono al ricevitore del telefono.

«Sì, sono io», dico. «Signor Archer?»

«Sì. Ascolti: ci sono novità.»

«Be’, lo spero proprio, signor Archer. Sto…»

«Non posso parlare a lungo, non con il suo telefono», prosegue la voce metallica. «Vada nel posto che le indico.»

Prendo un blocco e una matita. «Signor Archer, spero tanto che non sia un’altra…»

«Langholm, Bruntshiel Road. La cabina telefonica. Solita ora.»

«Signor Archer, questo è…»

«Langholm, Bruntshiel Road. La cabina telefonica. Solita ora», ripete la voce.

«Signor Arch…»

«Questa volta ho un altro nome per lei, signor Colley», dice la voce.

«Come…?»

La comunicazione viene interrotta. Guardo il telefono, poi stacco il microfono dal ricevitore. In quel momento, da dietro il monitor, appare il volto sorridente di Frank. Dà qualche colpetto con la biro sulla mia tastiera. «Era il nostro amico?» chiede.

Strappo il foglio dal blocco e me lo infilo nella tasca della camicia. «Sissignore.» Spengo il computer, prendo il Pearlcorder e mi metto la giacca.

Frank mi rivolge un sorriso raggiante e preme un qualche pulsantino sul suo orologio. «Te ne vai così presto? Bravo, Cameron. È un nuovo record!»

«Di’ a Eddie che gli passerò l’articolo per telefono.»

«La responsabilità è tua, però.»

«Certo.» Mi avvio verso la porta.

Mi faccio un po’ di roba nel bagno degli uomini e poi, dopo essermi euforizzato il setto nasale, il flusso sanguigno e gli emisferi con la polverina magica, prendo la 205 e parto in direzione di Langholm, che si trova piuttosto lontano, nei Borders. Mentre guido, finisco di comporre mentalmente l’articolo sul Vanguard; è domenica, e quindi uscire dalla città è facile, ma in campagna le strade sono piene di autisti da strapazzo, in gran parte vecchietti, con tanto di berretto, che se ne stanno aggrappati al volante e tengono lo sguardo fisso sulla strada; ricordo bene quando scorrazzavano tutti in Marina e Allegro, mentre adesso pare che siano passati in massa alle Escort Orion, alle Rover 413 o alle Volvo 340, in apparenza tutte dotate di controllo automatico della velocità, immancabilmente regolato sui sessanta all’ora.

Rimango intrappolato in una coda e, dopo un paio di sorpassi mozzafiato, suggeriti soltanto dall’anfe, che ottengono come unico risultato un buon numero di lampeggiamenti furiosi al mio indirizzo, decido di rallentare, di smetterla d’inveire contro gli altri, e di accettare il mio triste destino godendomi il panorama.

Gli alberi e le colline risaltano nitidi nella luce del tardo pomeriggio: i prati scoscesi e i tronchi brillano di una luce giallo-arancione contro le zone immerse nell’ombra. La colonna sonora è fornita dai Crowded House. Poco prima delle cinque, il cielo si scolora fino a diventare di un viola cupo e i fari delle macchine che mi vengono incontro cominciano a darmi fastidio agli occhi; è chiaro che sono stato un po’ troppo prudente con l’ultima sniffata terapeutica. Mi fermo in una piazzola di sosta subito dopo Hawick per una dose supplementare.

Langholm è una tranquilla cittadina vicino al confine con l’Inghilterra. Non dispongo di una pianta della città, ma ci vogliono solo cinque minuti per trovare Bruntshiel Road. Rintraccio la cabina telefonica in cima alla strada e parcheggio di fianco.

C’è un albergo a due minuti da lì. È l’ora di un drink.

Il bar dell’albergo è sgangherato e polveroso; deve ancora subire quell’operazione di by-pass architettonico che i gestori chiamano ristrutturazione. È abbastanza affollato e la clientela è varia.

Non ci vuole molto perché un doppio whisky faccia effetto e rimetta in equilibrio il sistema, vista la quantità di anfetamina che mi sono fatto durante il viaggio. Da quando ho preso il PC nuovo sto facendo economia, quindi ho ordinato un Grouse invece di un doppio malto, ma lo scopo è comunque raggiunto. Mentre sto finendo il whisky, il mio cellulare si mette a squillare. È il giornale: mi ricordano che è quasi ora di chiudere. Mi volto per proteggermi dagli sguardi curiosi dei locali e, parlando piano, dico che chiamerò da lì a poco, promesso. Compro le sigarette, faccio pipì e torno alla macchina. Attacco il Tosh all’accendisigari della macchina e batto il resto del pezzo sul Vanguard alla luce del lampione che illumina la cabina telefonica. Non faccio altro che sbadigliare, ma resisto alla tentazione di ricorrere ancora una volta al sacchettino miracoloso.

Finisco l’articolo, tiro fuori il modem e mando il pezzo al giornale. Poi torno in macchina. Mancano ancora dieci minuti alla telefonata del signor Archer. Di solito è puntuale. Faccio un salto all’albergo per un whisky veloce.

Quando ritorno alla macchina, il telefono della cabina sta squillando. Faccio una corsa, lo afferro, armeggio con il Pearlcorder e, imprecando sottovoce, lo collego, cercando di districare i fili.

«Pronto?» urlo.

«Chi parla?» dice la voce calma e meccanica. Riesco ad accendere il registratore e tiro un sospiro di sollievo.

«Sono Cameron Colley, signor Archer.»

«Signor Colley, dovrò richiamarla, ma il primo nome che ho per lei è Ares.»

«Come? Chi?»

«Il nome è Ares: A-R-E-S. Si ricorda gli altri nomi che le ho dato, vero?»

«Sì: Wood, Ben…»

«Ares è il nome del progetto cui stavano lavorando quando sono morti. Ora devo andare, ma la richiamerò tra circa un’ora. Avrò altre informazioni per lei. Arrivederci.»

«Signor Archer…»

Morto.

E morte sono pure le persone di cui mi ha fatto il nome il signor Archer. Tutti uomini. Si chiamavano Wood, Harrison, Bennet, Aramphahal e Isaacs. Il signor Archer mi ha dato i loro nomi la prima volta che mi ha trascinato in uno di questi appuntamenti telefonici in giro per la Scozia. (Il signor Archer non si fida dei cellulari, e non gli do torto.) Allora erano suonati vagamente familiari e parevano avere una strana, implicita sequenzialità; inoltre, non appena me li aveva detti, avevo immediatamente pensato al Lake District, senza sapere il perché. Il signor Archer mi aveva dato questi nomi e aveva riattaccato prima che potessi chiedergli qualcosa di più.