«Sono d’accordo», aveva convenuto William. «La cooperazione è una cosa fantastica. Se la gente non cooperasse, non si potrebbe governarla così facilmente.»
«Ma…»
«Ma c’è sempre bisogno di capi.»
«Però l’avidità e l’egoismo…»
«…hanno prodotto tutto ciò che vedi intorno a noi», aveva tagliato corto William, facendo un ampio gesto con la pistola.
«Esattamente!» avevo esclamato, allargando le braccia. «Il capitalismo!»
«Sì! Esattamente!» aveva ripetuto William, gesticolando. Ed eravamo rimasti lì, io con la fronte aggrottata, perplesso perché William non riusciva a capire quello che volevo dire, e William sorridente, ma ugualmente perplesso nello scoprirmi del tutto incapace di comprendere quello che lui intendeva.
Avevo scosso la testa, esasperato, e, brandendo la mia pistola, avevo detto: «Su, combattiamo».
«Questa è la mia idea e non me la toglie nessuno.»
E così volevo proprio inchiodarlo quel bastardo — preferibilmente con l’aiuto dei miei compagni di squadra, proprio per dimostrargli che avevo ragione — ma ’sta tecnologia di merda mi aveva abbandonato: la pistola si era inceppata e lui mi aveva inchiodato, sparando colpo dopo colpo. Infine avevo rinunciato a sbloccare la pistola e avevo fatto finta di tirargliela addosso, anche se non vedevo quasi più nulla, con il visore interamente coperto di giallo, ma lui si era abbassato, era inciampato e si era seduto su un tronco, tenendosi la pancia. Quel bastardo rideva come un matto perché io sembravo una gigantesca banana gocciolante, e soltanto allora mi ero reso conto che la pistola non era affatto inceppata: aveva la sicura inserita. Probabilmente le avevo fatto prendere una brutta botta. Mi restavano ancora un paio di colpi e avrei dovuto sparargli, ma non potevo, non mentre se ne stava seduto lì, morto dal ridere.
«Bastardo!» gli avevo gridato.
Lui aveva fatto girare la pistola intorno al dito. «Evoluzione! S’imparano molte cose quando si vive con un liquidatore!» Ed era scoppiato di nuovo a ridere.
Più tardi, al buffet allestito nel padiglione, si era infilato in cima alla coda passando davanti a tutti, dicendo: «Oh, io non credo nelle code!» e, quando la ragazza dietro di lui aveva protestato, lui, con aria costernata, le aveva spiegato che aveva il diabete e doveva mangiare immediatamente. Io mi ero fatto piccolo piccolo, ero arrossito e avevo guardato da un’altra parte.
Sto ancora pensando, pensando a tutte le volte in cui ho visto persone che conosco fare qualcosa per rappresaglia, o qualcosa di vendicativo o di meschino o di malvagio, oppure minacciare di farlo. Diamine, tutte le persone che conosco hanno fatto qualcosa del genere, una volta o l’altra nella vita, ma ciò non li rende obbligatoriamente assassini. Credo che McDunn sia pazzo, ma non glielo posso dire perché, se la sua teoria è sbagliata, e io mi sbaglio sul fatto che questi omicidi siano collegati a quei tizi morti qualche anno fa nel Lake District, allora rimane un solo sospettato, cioè io.
Il problema è che la mia teoria appare sempre più debole, perché McDunn mi ha convinto che si tratta soltanto di una cortina fumogena: non esiste nessun progetto Ares, non è mai esistito, e Smout, quello nella prigione di Baghdad, non ha niente a che vedere con quei morti; è solo una cospirazione — tanto geniale quanto fantasmatica — che qualcuno ha inventato per convincermi a recarmi nei luoghi più remoti ad aspettare una telefonata e privarmi così di un alibi, mentre l’uomo gorilla faceva una cosa orribile a qualcun altro in qualche altro posto. Ovviamente McDunn mi fa notare che l’assassino potrei essere comunque io: potrebbe essere tutta una storia che mi sono inventato. Potrei aver registrato le telefonate del misterioso signor Archer e averle fatte arrivare in ufficio mentre ero presente. Quando hanno perquisito il mio appartamento, hanno trovato quasi tutta l’attrezzatura necessaria per farlo: una segreteria telefonica, il mio PC e il modem; un altro paio di jack e, per una persona che sa come fare, sarebbe stato un gioco da ragazzi; oppure sarebbe stato sufficiente essere pazienti e andare per tentativi.
McDunn vuole aiutarmi sul serio, lo capisco, ma anche lui è sotto pressione: le prove circostanziali contro di me sono così forti che le persone all’oscuro dei particolari del caso si stanno spazientendo per la mancanza di progressi nelle indagini. A parte quel fottuto biglietto da visita, non hanno altre prove concrete: niente armi, abiti sporchi di sangue o minuscole cose tipo capelli o fibre che mi colleghino a qualcuna delle aggressioni. Ho il sospetto che non pensino che qualcuno dei testimoni sia in grado d’identificarmi, altrimenti mi avrebbero già sottoposto a un confronto all’americana. Eppure sembra tutto così ovvio: devo essere stato io. Giornalista di sinistra comincia a dare i numeri e si mette a far fuori borghesi di destra. Pare che mi sia perso qualche bel titolo da prima pagina, da quando sono qui dentro. A dire il vero ne avevo già persi in quei due giorni di vacanza che mi ero concesso; se mi fossi premurato di dare anche solo un’occhiata alle edicole dopo aver lasciato Stromeferry, avrei visto che stava cominciando a uscire la storia di questo tizio — la «pantera rossa», come avevano deciso di chiamarlo i giornali scandalistici — che abbatteva pilastri portanti della società, tutti inclinati verso destra.
McDunn non intende accusarmi di nessuno di questi omicidi, ma ben presto si dovrà prendere una decisione, perché stanno per scadere i termini della carcerazione preventiva e il ministro dell’Interno non concederà un prolungamento: in breve tempo dovrò comparire in tribunale. Diamine, potrebbe persino volermici un avvocato.
Sono ancora molto spaventato, anche se McDunn è dalla mia parte, perché capisco che non ha più molte speranze; se poi gli tolgono il caso, potrei anche beccarmi i poliziotti cattivi, quelli che vogliono solo una confessione e, Cristo, qui sono in Inghilterra, non in Scozia, e, nonostante i casi McGuire e Guildford, non hanno ancora cambiato la legge: si può ancora essere condannati in seguito a confessione non comprovata, anche se successivamente la si ritratta.
Sto diventando paranoico, sono deciso a non firmare nulla, anzi temo di averlo già fatto quando mi hanno portato qui e mi hanno detto che quella che stavo firmando era soltanto una ricevuta per gli effetti personali o la richiesta di assistenza legale o che cazzo ne so; ho paura che mi convincano a firmare qualcosa quando sono stanco, tutti mi hanno interrogato a turno, e desidero soltanto andare a letto e allora loro mi dicono, oh, facci un favore, firmaci questo e poi andrai a dormire, su, è solo una formalità, puoi sempre ritrattare, cambiare idea, ma invece non puoi, ovvio che non puoi, stanno mentendo. Ho persino paura di firmare qualcosa nel sonno, o che m’ipnotizzino e mi costringano a farlo. Diamine, non so proprio a cosa possano arrivare.
«Cameron», dice McDunn. È la mattina del quinto giorno. «Vogliono accusarti di tutti gli omicidi e delle aggressioni. Ti portano in tribunale, dopodomani.»
«Oh, Cristo!» Accetto una sigaretta. McDunn me la accende.
«Sei proprio sicuro che non ti è venuto in mente nulla?» chiede. «Assolutamente nulla?» Fa di nuovo quel risucchio con i denti. Sta cominciando a darmi fastidio.
Scuoto la testa, mi passo le mani sul volto, senza curarmi del fumo che mi va negli occhi e nei capelli. Tossisco. «Mi dispiace, ma no. Non ci riesco. Insomma, ci ho pensato molto, però niente…»
«Non me lo vuoi dire, vero Cameron?» fa l’ispettore, quasi dispiaciuto. «Vuoi tenerti tutto dentro, non desideri condividerlo con me.» Scuote la testa. «Cameron, per amor del cielo, sono l’unico che può aiutarti. Se hai qualche sospetto, qualche dubbio, devi parlarmene, devi farmi i nomi.»