«Andy?» Tendo una mano per toccarlo, ma lui si ritrae.
Ci alziamo entrambi e, immobili, osserviamo la macchia di sangue che si allarga.
«Credo che sia morto», sussurra Andy.
Tremando, allungo una mano e lo rivolto sulla schiena. Ha gli occhi mezzi aperti, ma non sembra che respiri. Gli afferro un polso e lo stringo per un po’, cercando di sentire il battito.
«Che cosa facciamo?» chiedo, lasciando andare il corpo inerte, che rotola nuovamente a pancia in giù. Il sole getta chiazze di luce sull’erba e sulle felci intorno a noi. Gli uccelli cinguettano dai rami sopra le nostre teste e in lontananza sento il rumore del traffico sulla strada.
Andy non risponde.
«Sarà meglio che lo diciamo a qualcuno, non credi, Andy? Sarà meglio dirlo a qualcuno, eh? Sarà meglio dirlo… alla tua mamma e al tuo papà. Dovremo dirlo alla polizia, anche se lui è… anche se era… Insomma è stata legittima difesa, è così che la chiamano, legittima difesa. Lui… stava cercando di ucciderci, di ucciderti; è stata legittima difesa, possiamo dirlo, la gente ci crederà, è stata legittima difesa…» Andy si volta verso di me. E pallido e teso. «Chiudi la bocca!»
Chiudo la bocca. Ma non riesco a smettere di tremare.
«E allora, che facciamo?» dico con un gemito.
«Lo so io», risponde Andy.
Andiamo a Heathrow su un’auto civetta, una Granada. Londra in una soleggiata mattina di novembre. Gente, macchine, edifici, negozi. Osservo la vita reale che prosegue il suo corso e mi sembra un film di fantascienza. Mi stupisco nel constatare quanto mi appaia aliena, strana e distante. Provo un bizzarro senso di nostalgia. Osservo gli uomini e le donne che affollano le strade o siedono nelle loro macchine, nei furgoni, negli autobus, nei camion, e la loro libertà mi appare inestimabilmente preziosa, esotica, inebriante. Poter passeggiare, guidare, fare tutto ciò che si desidera… Cristo, sono dentro da meno di una settimana e già mi sento come uno che esce dopo trent’anni.
Eppure so che questa gente non si sente libera, so che corre o che se ne sta seduta e intanto si preoccupa per il lavoro, per il mutuo, perché è in ritardo o per la paura che l’IRA abbia messo una bomba nel cestino dei rifiuti lì vicino… Ciononostante la guardo e avverto una terribile nostalgia, perché penso di aver ormai perso tutto: l’ordinarietà della vita, la capacità di farne parte e di prendervi parte. Spero proprio che il mio sia soltanto un atteggiamento po’ melodrammatico e che presto ogni cosa verrà ricondotta alla normalità, a com’era un tempo, prima che cominciasse questo incubo, ma ne dubito. Dentro di me comprendo che, anche se tutto finirà nel migliore dei modi, la mia vita è cambiata profondamente, e per sempre.
Ma chi se ne frega. Se non altro sono tornato nel mondo reale, e con un minimo di controllo su me stesso.
Sono stato ammanettato, con discrezione, al sergente Flavell — la chiave la tiene McDunn — e insieme a noi ci sono un paio di agenti in borghese; ho la netta sensazione che siano armati fino ai denti, ma la tensione si è un po’ allentata. Non credo che mi considerino più il sospettato numero uno. Sono convinto che McDunn mi creda, e per il momento ciò mi basta. Quei poveracci del capitano — poi maggiore, ormai in pensione — Lingary e del dottor Halziel mi hanno aiutato alquanto, scomparendo in modo così misterioso. Cerco di non pensare a quello che Andy potrebbe fare loro. Cerco anche di non pensare a quello che potrebbe fare a me, se mai ne avesse l’opportunità.
Stiamo percorrendo la cara vecchia sopraelevata, parte della M4 (un tratto che i camion in panne sembrano prediligere), quando arriva una telefonata per McDunn. Lui solleva la cornetta, ascolta, aspira aria tra i denti per un po’ e poi dice: «Grazie». Mette giù l’apparecchio e si volta a guardarmi. «Era l’esercito», spiega, e poi si gira di nuovo a guardare la strada intasata dal traffico della tarda mattinata. «Il corpo nell’albergo non è quello di Andrew Gould.»
«Hanno confrontato i dati con quelli della cartella di Howie?» chiedo.
McDunn annuisce. «E i dati corrispondono a quelli di Gould. Non proprio esattamente — si era fatto fare altri lavori da allora —, però mi hanno riferito che si può esserne sicuri al novantanove per cento. Le cartelle sono state scambiate.»
Mi appoggio allo schienale e sorrido; per un poco sento dentro di me un calore che sostituisce la nausea. Ma non dura molto.
McDunn chiama al telefono qualcuno della polizia del Tayside e gli chiede di mettersi in contatto con i Gould per fermare il funerale.
Pranzo per cinque a dodicimila metri, Edimburgo vista dall’alto: grandiosamente grigia e un po’ nebbiosa. Atterriamo poco dopo l’una e ci stringiamo tutti e cinque su una Jaguar XJ. L’auto corre veloce verso nord e oltrepassa il ponte: non ha luci rotanti né sirena, eppure fila come un razzo È il tragitto autostradale più tranquillo che abbia mai fatto; tutta una volata sui centosessanta, senza problemi, senza doversi preoccupare di macchine civetta della polizia; il traffico davanti a noi sembra dileguarsi nell’aria, ragazzi, tutti frenano (e talvolta sbandano, e a quelli che guidano probabilmente vengono i sudori freddi) si gettano umilmente a sinistra e frenano di nuovo. In vita mia, non ho mai visto tante BMW darti strada così docilmente: sembra quasi che guidino tutti delle Due cavalli. È fantastico.
Gli afferriamo una gamba per uno e lo trasciniamo a faccia in giù tra le felci, in direzione del versante nord-occidentale della collina. I suoi calzoni sono ancora abbassati intorno alle caviglie e continuano a impigliarsi. Siamo costretti a fermarci, a girarlo, a tirarglieli su e ad allacciarglieli. Ora il suo pene è piccolo e, sopra, c’è un po’ di sangue, secco e incrostato. Trasciniamo l’uomo sotto gli alberi. Andy tiene ancora in mano il bastone con cui l’ha colpito.
Arriviamo a una macchia folta, formata da rododendri e da cespugli di more. Andy si fa strada attraverso il sottobosco e così trasciniamo l’uomo in mezzo ai rovi, dentro la verde oscurità. Lo zaino s’impiglia nei rami e Andy glielo toglie e lo spinge davanti a noi.
Arriviamo a un tozzo cilindro di pietre grezze: è la seconda presa d’aria del vecchio tunnel della ferrovia che corre sotto la collina.
Dall’autostrada facciamo in un lampo. Sembra incredibile, ma, se guidi una macchina della polizia, la gente ti aiuta addirittura a sorpassare. Quasi rimpiango di essere diventato un giornalista e non un autista della polizia: guidare così è un vero piacere. Ma forse, a pensarci bene, proprio questo lo rende meno eccitante.
A Gilmerton, dove un tempo erano parcheggiate le tre FIAT 126 blu, c’è una Sapphire Cosworth bianca e arancione che ci aspetta, acquattata all’incrocio; quando le passiamo davanti, ci lampeggia. Ferma all’ultimo incrocio per Strathspeld c’è un’altra autopattuglia.
«Facciamo le cose in grande stile, eh?» chiedo a McDunn.
Lui si limita ad annuire.
Arriviamo al villaggio. Osservo la mia vecchia casa: i cespugli e gli alberi sono più alti. C’è un’antenna parabolica sul tetto e una serra di fianco all’edificio. Osservo i negozi e i palazzi dall’aria familiare che mi sfilano davanti: il vecchio negozio di oggetti da regalo della mamma (ora è un videoshop), il pub dove ho bevuto la mia prima birra, il vecchio distributore di papà, ancora in servizio. C’è anche un’altra macchina della polizia, parcheggiata davanti ai giardini.
«I Gould sono in casa?» chiedo.
McDunn scuote la testa. «Si trovano nell’albergo davanti al quale siamo appena passati.»
Mi sento sollevato. Credo proprio che non avrei saputo cosa dire loro. «Salve! La bella notizia è che non ho ucciso vostro figlio, anzi, lui non è affatto morto, ma la cattiva notizia è che lui è un pluriomicida.»