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Cinque minuti dopo arriviamo alla casa.

La spianata di ghiaia sembra il parcheggio di una stazione di polizia. Mentre McDunn scende dalla macchina, sento un gran frastuono e alzo gli occhi verso il cielo coperto: cazzo, abbiamo persino l’elicottero!

McDunn si mette a parlare con alcuni pezzi grossi in divisa fermi sui gradini davanti al portone. Mi guardo intorno. Le cornici intorno alle finestre sono state ridipinte, le aiuole sembrano un po’ trascurate, ma non è cambiato nulla. Non sono più stato qui da quel lontano giorno, dalla settimana successiva alla morte di Clare; anche allora ogni cosa aveva questo aspetto smorto e sbiadito.

McDunn ritorna verso la macchina, incrocia lo sguardo di Flavell e gli fa un cenno. Scendiamo e seguiamo McDunn dentro la casa.

Anche all’interno non è cambiato nulla: la casa ha lo stesso aspetto e il medesimo odore di allora: pavimenti di parquet lucidissimo, vecchi tappeti sontuosi ma consunti, mobili assortiti in gran parte molto vecchi, un sacco di piante in vaso e quadri con panorami e ritratti sbiaditi dal tempo appesi alle pareti coperte da pannelli di legno. Passiamo sotto la curva della grande scalinata ed entriamo nella sala da pranzo. La stanza è piena di poliziotti; aperta sul tavolo, c’è una mappa della proprietà che copre quasi tutto il ripiano. McDunn mi presenta agli altri agenti. Non ho mai ricevuto tante occhiate sospettose in tutta la mia vita.

«Allora, dov’è il corpo?» chiede uno degli agenti in uniforme. Fa parte della polizia dello Strathclyde e si trova qui perché l’elicottero è proprietà loro.

«È ancora qui», gli rispondo. «A differenza… dell’uomo che state cercando.» Mi rivolgo a McDunn, l’unico volto amico e l’unica persona che possa guardare senza sentirmi come un ragazzino di cinque anni che ha appena fatto pipì nei calzoni. «Credevo che l’idea fosse quella di lasciare che il funerale si svolgesse comunque, o perlomeno di fare finta che si svolgesse. Lui sarebbe stato qui sicuramente. Avreste potuto catturarlo.»

Il volto di McDunn sembra di pietra. «Non ci è parso il modo migliore di procedere», spiega, e, per la prima volta, si esprime come un portavoce della polizia.

Ho l’impressione che alcuni dei presenti, fasciati nelle uniformi nere dal taglio perfetto, siano a disagio; dall’atmosfera generale e dallo scambio di occhiate capisco che su questo punto c’è stata parecchia discussione.

«Stiamo sempre aspettando questo cadavere», dice il poliziotto del Tayside, il comando ufficialmente incaricato di condurre questa fase dell’inchiesta. «Signor Colley», aggiunge.

Studio la mappa della proprietà. «Vi ci porto», annuncio. «Avrete bisogno di un palanchino o di qualcosa di simile, di una cinquantina di metri di corda e di una torcia. E anche di un seghetto.»

Andy stringe la grata di ferro e comincia a tirarla.

«Questa viene via», dice con un grugnito. Gli trema ancora la voce.

Lo aiuto. Riusciamo a sollevarla da una parte, ma dall’altra è trattenuta da una cerniera di metallo e non possiamo alzarla più di così.

Andy prende il ramo con cui ha colpito l’uomo e lo incastra sotto la grata: ne esce fuori un pezzo, ma, nel punto in cui un ramo più piccolo si è staccato, c’è un nodo, e la grata si blocca in quel punto, sollevata di circa mezzo metro dal bordo di pietra.

Andy getta lo zaino nel camino della presa d’aria, poi si piega per prendere l’uomo, lo afferra sotto un’ascella e cerca di sollevarlo.

«Su, vieni!» sibila.

Lo tiriamo su: la schiena è contro la base di pietra, la testa gli ciondola sul petto. Sulle pietre rimane una piccola scia di sangue. Andy afferra i polpacci dell’uomo, se li posiziona sotto le ascelle e li tira su. Io invece cerco di sollevargli le spalle, e la testa urta il bordo di pietra sottostante la grata. Lo spingiamo e lo solleviamo con tutte le nostre forze: le spalle strisciano contro il bordo, le braccia sono rivolte verso l’alto. Andy spinge, grugnendo e scivolando sulle foglie e sul terreno umido. Alzo il sedere dell’uomo con quanta forza ho in corpo, ma i calzoni restano impigliati nello spigolo di una pietra e cominciano a scendere; in quel momento, poi, il ramo che tiene su la grata si sposta e la griglia di ferro cade giù, andando a sbattere sul petto dell’uomo.

«Merda!» impreca Andy sottovoce. Lottiamo per risollevare la grata e la puntelliamo di nuovo con il ramo. La testa dell’uomo ciondola nel vuoto. Lo spingiamo per le gambe, ma queste si piegano all’altezza delle ginocchia, e siamo costretti a tenerle sollevate sopra le nostre teste per farle stare dritte; poi, però, mentre lo spingiamo e mentre i calzoni, impigliati contro il bordo di pietra, continuano a scendere, improvvisamente le braccia cadono nel vuoto, ed è più facile spingerlo. Ci sfugge di mano e scivola dentro la presa d’aria, strisciando sul bordo. I calzoni gli si fermano intorno alle caviglie e poi si raccolgono intorno agli scarponi che, un attimo dopo, scompaiono dentro la presa d’aria, sollevandosi verso l’alto e andando a colpire la grata all’ultimo momento; il ramo scivola nuovamente e la grata si chiude con un tonfo. Il ramo cade dentro e scompare.

Rimaniamo immobili per qualche secondo. Poi si sente — a meno che non sia frutto della nostra immaginazione — un tonfo molto lontano. Andy si scuote all’improvviso e si arrampica fino al bordo del camino. Guarda giù, nel buio, attraverso la grata.

«Lo vedi?» gli chiedo.

Andy scuote la testa. «No, ma prendiamo qualche ramo. Non si sa mai», dice.

Riapriamo la grata, puntellandola con un altro ramo, e passiamo la mezz’ora seguente a radunare pezzi di legno e rami caduti, sparsi lungo tutto quel versante della collina, trascinandoli in mezzo ai cespugli e gettandoli infine nella bocca del camino. Stacchiamo i rami morti dagli alberi e dai cespugli e ci aggrappiamo con forza a quelli vivi per strapparli. Raccogliamo bracciate di foglie morte e gettiamo pure quelle. Ma non riusciamo a vedere nulla.

Alla fine buttiamo anche un grosso ramo con tanti rami più piccoli ancora attaccati e un sacco di foglie — praticamente mezzo cespuglio — che scende per pochi metri e poi si blocca. Finalmente ci fermiamo, tutti sudati, senza fiato, tremanti per la fatica e per lo shock ritardato. Lasciamo andare la grata e gettiamo l’ultimo ramo, che s’impiglia nel ramo grosso incastrato vicino all’imboccatura. Ci sediamo sulle foglie morte ai piedi della presa d’aria, con la schiena appoggiata alle pietre.

«Stai bene?» chiedo ad Andy dopo un po’.

Lui annuisce. Allungo una mano per toccarlo, ma lui si ritrae.

Restiamo seduti lì per qualche tempo; continuo a sollevare lo sguardo, sempre più terrorizzato all’idea che l’uomo non sia morto oppure che sia diventato uno zombie e si stia arrampicando su per il camino, verso di noi, che apra la grata e ci afferri entrambi per i capelli. Mi alzo e mi metto davanti ad Andy. Mi tremano ancora le gambe e ho la bocca asciutta.

Anche Andy si alza. «Una nuotata», dice.

«Come?»

«Andiamo… a fare una nuotata. Giù al lago, al fiume.» Lancia un’occhiata alla presa d’aria.

«Sì», annuisco, cercando di sembrare allegro e nient’affatto preoccupato. «Andiamo a fare una nuotata.» Mi guardo le mani. Sono tutte sporche e graffiate. C’è anche un po’ di sangue. Tremano ancora. «Buona idea.»

Usciamo dai cespugli del sottobosco nella vivida luce del sole.

Passano alcuni minuti, forse tre o quattro, durante i quali vengo preso da una sconcertante esplosione di speranza, di gioia, d’incomprensione e di timore. Non trovano il corpo in fondo alla presa d’aria.

Abbiamo attraversato i giardini e il bosco, la collina su cui Andy e io ci sdraiavamo al sole, durante tutte quelle estati ormai lontane, siamo scesi nella piccola valle e poi su di nuovo tra gli arbusti e gli scheletri color rosso scuro delle felci morte, fino ad arrivare agli alberi sulla sommità della collinetta. Da ovest soffiava un vento umido che scuoteva le gocce di pioggia dagli alberi alti e spogli e portava fino a noi i rumori della strada.