McDunn ha un’espressione preoccupata. Ancora una volta, mi fa cenno di spingerlo a parlare.
«Senti, Andy, l’ho capito che eri tu il signor Archer…»
«Già, ho usato un sintetizzatore vocale», spiega con fare paziente.
«Ma quella faccenda di Ares, era tutta…»
«…una manovra diversiva, Cameron, già», dice ridendo. «Senti, forse c’è anche stato un qualche nefando complotto che legava i cinque tizi morti, ma non ho idea di che cosa potesse essere e, per quanto ne so, non c’è alcun collegamento tra Smout e Azul. Un bell’intreccio, però, non ti pare? Lo so che voi giornalisti andate matti per questo genere di vicende.»
«Eh, sì, mi avevi proprio fregato.» Rivolgo un debole sorriso a McDunn, che mi fa segno di andare avanti.
«Ma come sei riuscito a…» Deglutisco, cercando di ricacciare indietro il senso di nausea. Ho l’impressione che stia per venirmi un attacco di tosse. «Come facevi a conoscere le parole in codice dell’IRA? Non te le ho mai dette.»
«Il tuo computer, Cameron. Il tuo PC. Le tenevi in un file. Quando ti sei comprato il modem, hai reso tutto più facile. Ti ho mai detto che nel tempo libero mi diverto a fare il pirata informatico?»
Cristo!
«E quella volta che ti ho telefonato in albergo e tu mi hai richiamato, quando invece dovevi essere nel Galles…»
«Sì, Cameron», ammette, in tono divertito, di superiorità. «Una segreteria telefonica in albergo, collegata a un cercapersone. Ho richiamato la segreteria, ho ascoltato il tuo messaggio, ti ho richiamato. Un gioco da ragazzi.»
«Ed eri sul mio stesso aereo, quando sono andato a Jersey?»
«Quattro file più indietro. Parrucca, occhiali e baffi finti. Mentre tu aspettavi al bancone dell’autonoleggio, sono saltato su un taxi. E comunque», dice, e mi pare di sentirlo sospirare e stiracchiarsi, «ora devo scappare. Queste discussioni tecniche sono davvero affascinanti, ma ho il vago sospetto che ti abbiano chiesto di continuare a farmi parlare. Sto chiamando da un cellulare, ecco perché non mi hanno ancora rintracciato; mi trovo in una specie di grossa cella. Ehi, non è una coincidenza? Tu eri in cella la scorsa settimana, ora ci sono io… Be’, forse no. E comunque, come ti ho detto, è una grossa cella, ma se continuo a parlare sono sicuro che alla fine mi troveranno, quindi…»
«Andy…»
«No, Cameron, ascoltami bene: vi restituirò Halziel e Lingary questa notte, a Edimburgo. Ci sono due cabine telefoniche, una vicina all’altra, a Grassmarket, proprio fuori del pub The Last Drop. Voglio che ti trovi nella cabina a gettoni alle sette. Tu, in persona, ore diciannove-zero-zero questa sera, nella cabina a gettoni fuori del pub The Last Drop, Grassmarket, Edimburgo. Ciao!»
Si sente un clic e la linea cade. Guardo McDunn, che annuisce. Riattacco.
Edimburgo, una fredda serata di novembre. Grassmarket è illuminata a giorno sotto una pioggerellina sottile ed è dominata dal castello, una presenza tondeggiante avvolta da un’aura arancione.
Grassmarket è una piazza molto allungata ricavata sul lato sud-orientale del castello, e circondata in gran parte da edifici molto vecchi. Ricordo ancora quando era un posto squallido e mezzo in rovina, pieno di ubriaconi; poi, con il passare degli anni, ha gradatamente risalito la china e ora è una zona piuttosto alla moda: ristoranti chic, bar eleganti, boutique e negozi specializzati in cose tipo aquiloni, minerali o fossili. Resta sempre un ostello per i senzatetto proprio dietro l’angolo, segno che la zona non è diventata nobile in maniera completa e definitiva.
Il The Last Drop si trova all’estremità orientale di Grassmarket, vicino all’ansa di Victoria Street, che ospita negozi ancora più specializzati, compreso uno che, incredibilmente, sembra sopravvivere vendendo esclusivamente spazzole, scope di saggina e grossi rotoli di spago.
Il nome del pub, è in realtà meno allegro e spiritoso di quanto sembri a prima vista: un tempo, infatti, la forca veniva eretta proprio qui davanti.
Non si vedono macchine in giro. Sono seduto — ammanettato al sergente Flavell — in un’auto civetta, una Senator, in compagnia di McDunn e di altri due agenti in borghese della polizia del Lothian. Sul lato opposto di Grassmarket c’è un’altra macchina civetta e parecchie altre sono nelle vicinanze; un paio di furgoni, pieni di agenti in uniforme, sono parcheggiati nelle strade laterali, e lo stesso dicasi per numerose autopattuglie nei dintorni. Hanno controllato la cabina telefonica e tutti gli altri punti di osservazione, ma sono preoccupato lo stesso perché temo che Andy non abbia ancora finito con me; ho paura che stia mentendo e che, se metto piede in quella cabina telefonica, mi beccherò un colpo di fucile in testa. C’è un agente in borghese dentro la cabina: fa finta di telefonare, in modo che sia libera quando chiamerà Andy. Hanno già collegato il telefono a una stazione d’ascolto, perché tutto venga registrato. Osservo la facciata del pub. C’è un nuovo ristorante indiano piuttosto elegante a portata di naso — persino troppo a portata di naso — più o meno dove un tempo sorgeva il Traverse Theatre.
Una birra e un po’ di curry. Gesù! Mi viene l’acquolina in bocca. Siamo anche a uno sputo da Cowgate e dal Kasbar.
McDunn guarda l’orologio. «Le sette», dice. «Chissà se…» S’interrompe nell’attimo in cui il poliziotto dentro la cabina ci fa un segno con una mano.
«Precisione militare», osserva McDunn con un grugnito, poi fa un cenno con la testa a Flavell; scendiamo dalla macchina, mentre l’autista tocca un pulsante sulla radio, che emette uno squillo perfettamente sincronizzato con quello che proviene dalla cabina.
Flavell s’infila nella cabina con me; l’altro agente aspetta fuori.
«Pronto?» dico.
«Cameron?»
«Sì, sono io.»
«Cambiamento di programma. Trovati nello stesso posto alle tre di questa notte. Li riavrete allora.» Clic. La linea cade. Guardo Flavell.
«Ha detto alle tre?» chiede Flavell, con aria scocciata.
«Pensi allo straordinario», gli rispondo.
Mi portano nella stazione di polizia in Chambers Street, a circa un minuto di distanza. Mi danno da mangiare e da bere, poi mi mettono in una cella umida che puzza di disinfettante. Il pasto è una schifezza: uno stufato orribile, con purè di patate e cavolini di Bruxelles.
Ma c’è una cosa meravigliosa.
Mi hanno restituito il mio laptop. È stata un’idea di McDunn. Cerco di non dimostrarmi riconoscente in maniera troppo patetica.
Anzitutto controllo i file: non manca niente. Mi viene una mezza idea di far partire Xerium e di provare quel trucchetto che mi ha insegnato Andy, quello che ti permette di scavalcare le montagne cavalcando il fungo atomico, ma è soltanto una mezza idea. Invece, lancio subito Despot.
Non riesco a credere che sia la stessa partita. Rimango a bocca aperta.
Ho di fronte una landa desolata. Il mio regno è sparito. Il territorio è sempre lì, e così pure la popolazione, almeno parte di essa, e c’è addirittura la capitale, sotto forma di due giganteschi semicerchi di edifici intorno ai due laghi: vista dall’alto, sembra la sigla cc… Ma deve essere successo qualcosa di terribile. La città è un cumulo di rovine e, in gran parte, è abbandonata. Gli acquedotti sono crollati, le dighe si sono rotte e ora sono vuote, le aree circostanti sono tutte allagate oppure devastate da incendi giganteschi. L’attività cittadina è quella che ci si aspetterebbe di trovare in un piccolo centro. Le poche campagne che non si sono trasformate in deserto o in palude sono ricoperte da una fitta vegetazione; ci sono grandi aree completamente abbandonate, e, là dove si vede qualche traccia di coltivazione, si tratta di minuscoli campi intorno ai paesini nascosti nella foresta o ai margini del deserto. I porti sono distrutti oppure insabbiati, le strade e i canali sono nel più completo abbandono, se non scomparsi del tutto, le miniere sono crollate e allagate, e le città, grandi e piccole, si sono spopolate, mentre i templi — tutti i miei templi! — sono soltanto ammassi di rovine, buie e abbandonate. I banditi scorrazzano per la zona, tribù barbare saccheggiano le province, le pestilenze dilagano e la popolazione si è assai ridotta, è meno produttiva e la vita media è assai più breve.