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«Quella è la signora Sorrell?» chiede McDunn a bassa voce.

«Sì», rispondo con il fiato corto, come se qualcosa dentro di me si fosse calmato. Avrei voglia di piangere. Yvonne si gira verso un’altra macchina della polizia che sta arrivando. Mette via la torcia quando l’auto si ferma e ne scendono due agenti in uniforme. Si avvicina a loro, facendo un cenno con il capo in direzione della casa.

«Andiamo a sentire cos’ha da dirci», annuncia McDunn.

Passiamo davanti alla porta dello spogliatoio. «Un momento», lo richiamo. McDunn si ferma. Attraverso lo spogliatoio e spalanco la porta del bagno. La luce pallida m’investe.

Niente. Guardo dentro la doccia, nella Jacuzzi. Niente, faccio un respiro profondo e torno da McDunn. Insieme ci avviamo verso il pianoterra.

«Cameron!» esclama Yvonne non appena arriviamo in fondo alle scale. Sta posando i giornali e due bottiglie di latte sul tavolino del telefono. I due poliziotti arrivati con la seconda macchina sono dietro di lei. Lei lancia un’occhiata a McDunn, poi viene verso di me e mi abbraccia, stringendomi forte. «Stai bene?»

«Sì. E tu?»

«Sì», risponde lei. «Che cos’è questa faccenda? Qualcuno al giornale mi ha detto che eri tu l’uomo che la polizia tratteneva per tutti quegli omicidi.» Si stacca da me, ma mi tiene comunque un braccio intorno alla vita. «Perché la polizia è qui?» chiede, scrutando McDunn.

«Ispettore McDunn», fa lui, accennando un saluto con il capo. «Buongiorno, signora Sorrell.»

«Salve.» Yvonne fa un passo indietro e, sempre tenendomi per mano, mi scruta. «Cameron, hai un’aria…» Poi scuote la testa, mordendosi le labbra. Si guarda intorno e dice: «Dov’è William?»

McDunn e io ci scambiamo un’occhiata. In quel mentre, l’ispettore Burall scende le scale annunciando: «Niente al piano di sopra…» e poi si ferma, vedendo Yvonne.

Lei mi lascia andare la mano, fa un passo indietro e ci osserva tutti, a uno a uno. Un agente della prima macchina entra nell’ingresso dallo studio. Lo sguardo di Yvonne cade sulle mie mani guantate e poi su quelle di tutti i presenti.

E improvvisamente capisco il suo stato d’animo: è una giovane donna, circondata da sconosciuti che hanno invaso la sua casa, che ci sono entrati dentro certo non a seguito di un invito; e sono tutti più grossi di lei, sono tutti estranei tranne uno che, le è stato detto, potrebbe essere un serial killer. D’un tratto, sul suo viso cala un’aria stanca, arrabbiata e provocatoria al contempo. Ho l’impressione che il mio cuore stia per sciogliersi.

«Suo marito era in casa quando lei è uscita, signora Sorrell?» chiede McDunn con un tono di voce molto naturale.

«Sì», risponde lei, continuando a guardarsi intorno, soffermandosi su di me, come per studiarmi, per capire, prima di rivolgersi a McDunn. «Era qui. Io sono uscita circa mezz’ora fa.»

«Capisco», dice McDunn. «Bene. Probabilmente avrà fatto un salto fuori. Sa, ci hanno avvertiti che poteva esserci qualche problema e ci siamo presi la libertà di…»

«Non è in giardino?» domanda lei.

«Pare di no. No.»

«Be’, non si fa un ‘salto fuori’ da questo residence, ispettore», dice Yvonne. «Il negozio più vicino è a dieci minuti di macchina, e l’auto di mio marito è ancora in garage.» Si rivolge al poliziotto che è appena sceso dal piano superiore. «Lo avete cercato? Avete perquisito la casa?»

McDunn sfoggia tutto il suo charme. «Sì, signora Sorrell, lo abbiamo fatto, e mi scuso per questa invasione della sua privacy. Me ne assumo tutta la responsabilità. L’indagine in cui siamo impegnati è molto seria, e abbiamo avuto una soffiata da una fonte che in passato si era dimostrata del tutto attendibile. Dato che la casa era aperta, ma apparentemente incustodita, e avevamo motivo di credere che potesse essere stato commesso un crimine, ho pensato che fosse giusto entrare, però…»

«Quindi non l’avete trovato», lo interrompe Yvonne. «Non avete trovato niente?» Improvvisamente sembra piccola e spaventata. Capisco che sta lottando contro la paura, e la amo per questo, e vorrei abbracciarla, consolarla, rincuorarla, però un’altra parte di me prova soltanto una terribile, disperata gelosia, perché la persona per cui è così preoccupata non sono io, bensì William.

«Non ancora, signora Sorrell», risponde McDunn. «Che cosa stava facendo, l’ultima volta che lo ha visto?»

Vedo che deglutisce, vedo il collo che si tende mentre cerca di controllarsi. «Era in garage», mormora. «Voleva portare fuori il piccolo trattore tosaerba Honda, e raccogliere le foglie nel giardino sul retro.»

McDunn annuisce. «Bene. Allora daremo un’occhiata. Va bene?» Guarda i due poliziotti appena arrivati e alza una mano, muovendo le dita. «I guanti, ragazzi.»

I due annuiscono e si avviano verso la porta d’ingresso.

Andiamo in garage, passando per il soggiorno e la cucina. Mi sembra di camminare su una sostanza appiccicosa e mi è tornato quel terribile rombo alle orecchie. Cerco di non mettermi a tossire.

McDunn si ferma nel ripostiglio. Sembra un po’ imbarazzato. «Signora Sorrell», dice, sorridendo, «potrei chiederle di farci un caffè?»

Yvonne lo fissa. Ha un’espressione dura, sospettosa. Poi gira sui tacchi e si avvia verso il bancone dove è posato il bollitore.

McDunn apre la porta che dà nel garage. Vedo la Mercedes e penso «La macchina, il baule della macchina!» Poi vedo le casse da imballo. Cristo, anche quelle.

Non mi sento bene. Comincio a tossire. McDunn e gli agenti esaminano le casse e la macchina, ma sembra che non abbiano visto il grosso bidone nero con le ruote. Me ne sto in disparte, appoggiato al muro, li ascolto parlare, li osservo aprire, frugare, curiosare, e quel bidone rimane lì, ignorato, una grossa sagoma scura contro la luce che proviene dall’esterno. Si è alzata una leggera brezza che solleva polvere e foglie, spingendone qualcuna sul pavimento del garage verniciato di bianco. McDunn guarda sotto la macchina. Burall e l’altro agente stanno spostando le casse e i bauli ammassati contro il muro per esaminare quelli sottostanti. I due poliziotti della seconda macchina s’infilano i guanti di plastica e risalgono il vialetto.

Quando non resisto più, mi allontano dal muro, nel preciso momento in cui Yvonne entra in garage. Mi avvicino barcollando al grosso bidone: è alto almeno un metro. Sento gli occhi degli altri su di me, sento Yvonne dietro di me. Tossendo, allungo una mano e la poso sul coperchio di plastica liscia. Lo sollevo.

Ne esce un vago odore di pesce marcio, misto ad altri sentori altrettanto sgradevoli. Ma il bidone è vuoto.

Rimango a fissare l’interno, e provo una sorta di shock perverso: mi sembra di precipitare all’indietro. Lascio andare il coperchio.

Finisco addosso a Yvonne, e lei mi sostiene. Mulinelli di vento s’insinuano nel garage, le porte scricchiolano. Poi si sente uno schiocco dall’alto, e improvvisamente la porta di mezzo si chiude proprio in faccia ai due poliziotti che stanno arrivando dal vialetto. Sussulto, arretro di un passo e, mentre la zona centrale si oscura, la porta si chiude, sbattendo e sollevando una nuvola di polvere, Yvonne lancia un urlo breve e soffocato. E allora vedo William. È assicurato alla struttura interna di rinforzo della porta con nastro adesivo, i polsi e le caviglie sono legati con pezzi di spago, la testa è coperta da un sacchetto della spazzatura nero, stretto intorno alla gola con nastro adesivo nero; il corpo è ormai senza vita.

Mi volto, piegato in due, e comincio a tossire e a tossire. Improvvisamente dalla bocca mi esce un fiotto di sangue che schizza di rosso il pavimento bianco del garage. In quel particolare momento di solitudine, con gli occhi pieni di lacrime, vedo McDunn che si avvicina e mette una mano sulla spalla di Yvonne.

Lei si allontana — da lui, da William, da me — e si copre il volto con le mani.

LA STRADA PER BASSORA